Parlano italiano senza accenti, tifano per la Nazionale, cantano l’inno di Mameli. Sono cresciuti nelle nostre scuole, nelle nostre piazze, nei nostri quartieri. Eppure, per lo Stato, restano stranieri. Sono gli oltre 900.000 giovani nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, che nonostante abbiano frequentato le nostre scuole, condiviso le nostre abitudini, vissuto la nostra cultura, rimangono esclusi dal diritto di cittadinanza.
Domenica 9 marzo 2025, la trasmissione di Rai 3 PresaDiretta, condotta da Riccardo Iacona, ha acceso i riflettori su questo tema con la puntata “Cittadinanza all’Italiana”, un’inchiesta che ha mostrato con numeri e testimonianze il paradosso di chi si sente italiano, ma per la legge non lo è.
Tra coloro che vivono questo paradosso ogni giorno, c’è chi ha deciso di non restare a guardare. Guido Barilla, insegnante alla scuola Aristide Gabelli di Torino e presidente dell’associazione Legamondo, da anni si batte per il riconoscimento di questi ragazzi come italiani a tutti gli effetti.
Da dieci anni insegna alla Aristide Gabelli, scuola elementare nel quartiere Barriera di Milano di Torino, dove il 95% degli allievi è di origine non italiana. La maggior parte delle famiglie proviene dal Maghreb, area da sempre ponte tra le due sponde del Mediterraneo, ma tra i banchi siedono anche bambini senegalesi, nigeriani, sudamericani e del Bangladesh. Durante i cinque anni di scuola primaria, oltre alle materie tradizionali, i bambini partecipano a lezioni di cittadinanza e Costituzione. Eppure, al termine del percorso scolastico, a questi giovani non è riconosciuto il loro legame con l’Italia, nonostante siano nati a Torino, frequentino l’oratorio o giochino a calcio nelle squadre del quartiere e le loro famiglie risiedano qui da generazioni. Non è solo un problema delle metropoli: in ogni angolo d’Italia, migliaia di ragazzi crescono sentendosi parte di un Paese che però non li riconosce.
Bambini nati e cresciuti in Italia, integrati nel tessuto sociale, ma privi del diritto di essere considerati cittadini italiani. Alla Gabelli, i piccoli studenti imparano la grammatica, la matematica, la geografia, ma soprattutto cosa significa essere parte di una comunità. Partecipano a lezioni di educazione civica, discutono di Costituzione, diritti e doveri. Ma al termine del percorso scolastico, la loro identità rimane invisibile agli occhi dello Stato. Hanno studiato nelle nostre scuole, giocato nelle nostre piazze, condiviso i sogni e le speranze dei loro coetanei italiani, eppure si trovano improvvisamente di fronte a un muro burocratico che li respinge.
Mentre per questi ragazzi la cittadinanza è un diritto negato, per altri l’accesso al passaporto italiano è molto più semplice. Mentre questi giovani aspettano invano di essere riconosciuti italiani, c’è chi ottiene il passaporto senza aver mai messo piede nel nostro Paese. In Brasile, dove vivono circa 30 milioni di persone con origini italiane, esistono agenzie che per una cifra tra i 5.000 e i 10.000 euro garantiscono il passaporto italiano. Un doppio standard che grida ingiustizia.
Il dibattito sulla cittadinanza infiamma da anni la politica italiana, ma senza soluzioni concrete. Attualmente sono quasi 30 le proposte di riforma in discussione in Parlamento, con posizioni nettamente contrapposte: il vicepremier Antonio Tajani sostiene lo ius scholae, che prevede la cittadinanza per chi abbia completato un ciclo scolastico in Italia, mentre la Lega e Fratelli d’Italia difendono lo ius sanguinis, mantenendo rigide restrizioni.
Nel frattempo, migliaia di giovani vivono nell’incertezza: l’accesso a determinate professioni, la possibilità di partecipare a concorsi pubblici, il diritto di voto, tutto resta sospeso in un limbo normativo che tarda a essere risolto. La proposta di un referendum abrogativo per ridurre il periodo di residenza obbligatorio per ottenere la cittadinanza potrebbe rappresentare una svolta, ma la politica procede con una lentezza che non rispecchia la realtà di questi ragazzi.
L’urgenza di dare risposte a chi si sente italiano ma non lo è ufficialmente non riguarda solo Torino o Milano, ma si estende a tutto il Paese. L’Italia ha bisogno di questi giovani tanto quanto loro hanno bisogno dell’Italia. Le loro storie, il loro impegno, il loro senso di appartenenza sono una risorsa preziosa, che meriterebbe di essere riconosciuta e valorizzata. L’Italia di domani è già qui, nelle scuole, nei campi da calcio, nelle università. Fingere di non vederla non la farà sparire. La domanda è solo una: vogliamo finalmente riconoscerla, o continueremo a voltarle le spalle?