MESTRE – «Ho scelto la destra perché mi è stata data la possibilità di avere un vero confronto politico, concreto e sincero. La sinistra credo che finora abbia utilizzato gli stranieri come numeri, la loro è un’apertura solo di facciata. Io qui invece penso di poter arrivare a qualcosa di buono non solo per i bengalesi, ma per tutta la città».
APPROFONDIMENTI
Prince Howlader, uno dei rappresentanti della comunità bengalese mestrina, è appena entrato nel circolo di Mestre-Carpenedo di Fratelli D’Italia e già si è messo al lavoro su mille progetti: dalle scuole, alle aziende, dalle strutture ai luoghi di culto.
«Sto svolgendo un’analisi dei problemi dall’interno: l’obiettivo è far convivere al meglio italiani e bengalesi. Siamo un popolo di lavoratori e gente per bene».
Ultimamente ci sono state degli episodi di tensione all’interno della vostra comunità che, però, hanno preoccupato molto la città.
«Ci sono delle mele marce che stanno rovinando l’immagine di tutti. Questi personaggi li abbiamo riconosciuti e più volte segnalati alle istituzioni».
C’è tensione anche attorno ai luoghi di culto, a cosa è dovuta?
«È una questione delicata, ogni associazione vuole avere il proprio seguito. Credo però che il tempo delle frizioni sia finito: le istituzioni hanno avuto anche troppa pazienza sull’argomento».
La comunità musulmana di Venezia cresce di anno in anno: solo voi bengalesi siete arrivati a 14mila persone. È tempo per la città di avere una propria moschea?
«In città no. Non ci sono posti, servirebbero almeno 5mila metri quadrati e spazi vuoti per un progetto del genere qui non esistono. Servono autorizzazioni di ogni genere, dal Ministero alla Regione, passando per Comune e prefettura. Però è innegabile che visti i numeri è una cosa a cui prima o poi si dovrà arrivare, anche se fuori dai confini comunali».
Quindi in provincia?
«Ne discuteremo più avanti con calma. Al momento abbiamo troppi luoghi di preghiera affollati in città, lo scopo deve essere quello di alleggerirli. Certo gli italiani non sono abituati ancora a vedere questo tipo di realtà. Un po’ alla volta si abitueranno anche quelli che ci ripetono: “Ma qui siamo in Italia o in Bangladesh?”. Capisco che sia difficile da accettare, ma è un dato di fatto che la presenza degli stranieri oggi sia fondamentale».
Si riferisce alla manodopera?
«Sì, certi lavori hanno bisogno di manodopera. Cinquant’anni fa c’erano solo operai italiani a Fincantieri, oggi non è più così. I figli di quegli operai hanno studiato, si sono laureati e vogliono fare altro. Qualcuno che continui a fare quel mestiere ci vuole».
In passato però la fragilità di chi aveva necessità assoluta di un lavoro per il permesso di soggiorno ha portato allo scandalo dello sfruttamento delle ditte che agivano in subappalto.
«Io per primo avevo denunciato nel 2017 le cose che non andavano bene a Fincantieri. L’inchiesta ha ripulito molto l’ambiente, ora va molto meglio».
Si può migliorare ancora?
«Servono interventi per il personale: docce, mensa. Serve, soprattutto, incrementare il servizio di trasporto pubblico: la gente si lamenta che non trova posto in autobus negli orari di cambio turno, bisogna potenziare le corse».
Qualcuno le attribuisce una vicinanza i gruppi più radicali di via Piave, è vero?
«Assolutamente no, non condivido quasi nulla. Ma sono a disposizione della comunità: aiuto le persone che me lo chiedono, a prescindere dalla loro estrazione».
La comunità bengalese è spesso accusata di avere un modello patriarcale. È davvero così?
«È un qualcosa che riguarda solo una frangia, quella degli estremisti. Questo modello sta sparendo tra le nostre nuove generazioni, come è successo anche per gli italiani anni fa».
Le donne però non sembrano ancora avere una propria indipendenza, almeno lavorativa ed economica.
«Andrebbero sensibilizzate di più. Arrivano da un paese in cui C’è una cultura completamente diversa. Servono corsi di italiano, e una formazione professionale perché al giorno d’oggi non può esserci solo una persona a lavorare in famiglia».