di Davide Frattini
Le proteste e gli avvertimenti dei gruppi tribali ai fondamentalisti
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME
A tenerlo per il polso è uno degli uomini, a sparargli sarebbero stati quasi tutti. Il clan Abu Samra è tra i più influenti a Deir El Balah, nella parte centrale della Striscia: rimasto potente nei quasi diciotto anni di dominio esercitato da Hamas, ancora di più adesso che i fondamentalisti sono stati travolti dall’offensiva militare, anche se meno di quanto Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, ripeta e proclami.
Quando un membro della famiglia estesa — migliaia di persone, calcolate secondo la tradizione iper-conservatrice sul numero dei maschi — è stato ucciso da un paramilitare jihadista, i parenti lo hanno individuato, cercato e condotto con i kalashnikov puntati alla schiena verso il punto d’ingresso alla cittadina, la scritta in metallo che ha resistito a diciotto mesi di bombardamenti. I video diffusi sui social media mostrano il gruppo che lo costringe ad attraversare la strada impolverata, i testimoni raccontano delle raffiche di fucile mitragliatore.
I capi degli Abu Samra dicono che il loro Abdulrahman è stato ammazzato con un colpo di pistola alla testa mentre era in fila per ricevere la farina, un bene sempre più scarso nei 363 chilometri quadrati in cui da un mese il governo israeliano non permette più l’ingresso di aiuti umanitari.
La reazione degli Abu Samra arriva dopo le proteste contro Hamas, sette palestinesi sono stati freddati dai fondamentalisti: per tre giorni la settimana scorsa migliaia di persone, soprattutto nel nord di Gaza, hanno marciato per strada chiedendo la fine della guerra, rivolgendo questa volta la rabbia verso l’organizzazione che ha preso il controllo del territorio nel 2007 con un golpe armato. Allora i clan fedeli al Fatah del presidente Abu Mazen, come gli Hilles, avevano combattuto contro i miliziani che in meno di una settimana avevano sopraffatto le forze dell’Autorità di Ramallah.
La maggior parte ha scelto di continuare ad amministrare i propri affari fino a quando il regime non interferiva, altri sono passati dalla parte dei nuovi potenti, alcuni come i Dogmush hanno radicalizzato i traffici e l’ideologia scegliendo i vessilli neri di Al Qaeda. Da ministro della Difesa, prima che Netanyahu lo cacciasse lo scorso novembre, Yoav Gallant aveva tratteggiato un piano per affidare la sicurezza nella Striscia proprio ai gruppi tribali. Anche al funerale di Odai Al Rubai, 22 anni, i parenti si sono presentati armati, i colpi sparati solo in aria ma come avvertimento per Hamas: il giovane — spiegano — è stato portato via dagli sgherri jihadisti perché avrebbe espresso in un caffé dalle parti di Gaza City la stessa rabbia urlata nelle manifestazioni. Lo hanno prelevato da casa, torturato per ore, il cadavere lanciato dal tetto di un palazzo e depositato davanti alla porta di casa. Il dissenso marcia sotto lo stesso slogan gridato nel 2019 da tanti giovani, per i quali già prima della guerra il tasso di disoccupazione era all’80 per cento. Lo slogan della miseria ormai disperata: «Vogliamo vivere».