di
Fiorenza Sarzanini

Il chirurgo e gli ultimi minuti nella stanza del Pontefice all’alba di lunedì 21 aprile

«A gennaio Papa Francesco mi ha detto che dovevamo occuparci degli embrioni abbandonati. È stato netto: “Sono vita, non possiamo consentire che siano utilizzati per la sperimentazione oppure che vadano persi. Sarebbe omicidio”. Stavamo valutando, anche con il ministero della Salute, tra le varie opzioni, il modo per concederli in adozione ma non c’è stato il tempo perché il Papa potesse rendere esecutiva la sua decisione. Il mio impegno adesso sarà, se ci saranno le condizioni, realizzare questo suo desiderio».

Sergio Alfieri, il primario di chirurgia oncologica addominale del policlinico Gemelli, coordinatore dei medici del Santo Padre durante il suo ricovero e suo chirurgo personale, parla del Pontefice al presente. E per la prima volta rivela dettagli e progetti che hanno segnato un rapporto «di stima e affetto» cresciuto negli anni. Da quando, era il 2021, si occupò della prima operazione all’addome.



















































Quando l’ha visto per l’ultima volta?
«Sabato dopo pranzo, alla vigilia di Pasqua. E posso dire che stava molto bene, me l’ha detto anche lui. Gli ho portato una crostata scura come piace a lui e abbiamo chiacchierato un po’. “Sto molto bene, ho ricominciato a lavorare e mi va”. Sapevo che il giorno dopo avrebbe impartito l’Urbi et Orbi e ci siamo dati appuntamento a lunedì».

Lei aveva prescritto 60 giorni di convalescenza. Non gli ha consigliato di evitare di lavorare?
«No, perché è stato giusto così. Lui è il Papa. Tornare al lavoro faceva parte della terapia e lui non si è mai esposto a pericoli. È come se avvicinandosi alla fine avesse deciso di fare tutto quello che doveva. Proprio come accaduto domenica quando ha accettato la proposta del suo assistente sanitario personale Massimiliano Strappetti di girare in piazza tra la folla. O come ha fatto dieci giorni fa».

Che cosa ha fatto?
«Mi ha chiesto di organizzare un incontro con tutte le persone che lo avevano curato al Gemelli. Gli ho detto che erano 70 persone forse era meglio farlo dopo Pasqua, alla fine della convalescenza. La sua risposta è stata netta: “Li incontro mercoledì”. Oggi ho la sensazione netta che lui sentisse di dover fare una serie di cose prima di morire».

Quando è stato avvertito?
«Lunedì alle 5,30 circa mi ha chiamato Strappetti: “Il Santo Padre sta molto male dobbiamo tornare al Gemelli”. Ho preallertato tutti e venti minuti dopo ero lì a Santa Marta, mi sembrava tuttavia difficile pensare che fosse necessario un ricovero. Sono entrato nella sua stanza e lui aveva gli occhi aperti. Ho constatato che non aveva problemi respiratori e allora ho provato a chiamarlo però non mi ha risposto. Non rispondeva agli stimoli, nemmeno quelli dolorosi. In quel momento ho capito che non c’era più nulla da fare. Era in coma».

Inutile anche trasferirlo in ospedale?
«Rischiavamo di farlo morire nel trasporto, ho spiegato che il ricovero sarebbe stato inutile. Strappetti sapeva che il Papa voleva morire a casa, quando eravamo al Gemelli lo diceva sempre. È spirato poco dopo. Io sono rimasto lì con Massimiliano, Andrea, gli altri infermieri e i segretari; sono quindi arrivati tutti e il cardinale Parolin ci ha chiesto di pregare e abbiamo recitato il rosario con lui. Mi sono sentito un privilegiato e ora posso dire che lo sono stato. Quella mattina gli ho dato una carezza come ultimo saluto».

Quando è stato scelto?
«La prima volta l’ho incontrato nel 2018, fu una grande emozione. Io ero consulente chirurgo della Santa Sede e lui ci invitò a partecipare a una messa a Santa Marta. Era come un parroco, faceva la predica e poi al termine della celebrazione usciva dalla chiesa e salutava tutti uno per uno. Due anni dopo cominciò a stare male con la pancia, aveva fortissimi dolori addominali e la sua qualità di vita, con tutti gli impegni lavorativi che aveva, non era ottimale. Fece gli esami, ascoltò diversi medici. Aveva una malattia diverticolare severa. Un giorno Strappetti mi portò la Tac. Forse il Papa era informato che avevo la maggior esperienza in Italia di interventi di chirurgia colon rettale e scelse di farsi operare da me».

E lei consigliò l’intervento?
«Dissi che le condizioni erano serie ma avrei dovuto visitarlo. Un giorno mi chiesero di andare in ambulatorio in Vaticano, dopo circa 2 ore incontrai il Papa che stava andando via in macchina. Mi guardò e mi disse: “Ha visto la mia tac? Va bene grazie”. E andò via. Quella era la visita. Mi chiamarono dopo qualche giorno e andai a Santa Marta. Mi disse: “Ho deciso di operarmi e ho scelto lei”. Lo visitai e sentii tutta la responsabilità. “Guardiamo l’agenda. Dove mi opera?”. Ebbi la chiara sensazione che volesse andare ovunque, in qualsiasi ospedale io decidessi, ma gli risposi, questa volta in modo molto deciso, che se voleva essere operato da me non c’erano altre possibilità che il Gemelli. Accettò ma alle sue condizioni: “Arriverò domenica dopo l’Angelus. Non dovrà saperlo nessuno. Se la notizia uscirà non mi opero più”».

E siete riusciti a mantenere il segreto?
«Sì! La versione ufficiale era che arrivava un capo di Stato estero che voleva massima riservatezza. Lui specificò che qualsiasi decisione al suo posto avrebbe dovuto prenderla Strappetti. E poi successe una cosa che soltanto adesso posso rivelare».

Quale?
«Qualche minuto prima dell’intervento Strappetti mi disse che il Papa voleva vedermi. Entrai nella sua stanza e lui mi benedì le mani. Fu un’emozione incredibile, il significato l’ho compreso soltanto dopo. Lui voleva dirmi utilizza le tue mani per il tuo lavoro, ma utilizza le tue mani con il cuore nei prossimi anni. Come dire, sei cattolico ma adesso hai qualcosa in più. Era un segreto tra noi tre, lui voleva che si sapesse e adesso posso dirlo».

Eravate amici?
«Si può dire che siamo legati da una stima profonda. In quell’occasione siamo stati in clausura per una settimana. Ci furono complicazioni, ma il terzo giorno decise di offrire la pizza. Si mise a capotavola e mangiare a tavola con lui è un altro privilegio che la vita mi ha regalato».

Quali altri?
«Qualche mese dopo mi disse che non voleva che l’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina di Roma fosse venduto e diventasse un ospedale non cattolico. Mi chiese aiuto. Lo abbiamo fatto per sua volontà. È stato un anno molto impegnativo perché l’ospedale era stato venduto, mancava l’ultima firma. Organizzò una riunione a Santa Marta e disse: “Adesso cerchiamo di essere concreti, non facciamo come quella canzone di Mina che dice “Parole parole parole”. C’erano 200 milioni di debiti. Con due telefonate, una al cardinale Zuppi, fece stanziare i fondi necessari. L’altra metà la mise il cavalier Del Vecchio senza pretendere nulla in cambio. Il Papa disse : “È stata la provvidenza, questo desiderio mi è venuto da dentro”. Alla fine lo feci incontrare con il cavalier Del Vecchio, e fu molto commovente perché erano due anziani, che si intesero subito, e che avevano salvato un ospedale simbolo della città».

Poi c’è stato il secondo intervento.
«Anche in quel caso tutto segreto. Dopo la prima operazione al momento di tornare a casa si era affacciato per dire chiaramente qual era l’importanza della sanità pubblica e l’importanza di mantenere gli ospedali cattolici con una certa missione. Lo dimostrò tornando al Gemelli».

Ora si occuperà degli embrioni?
«Beh non solo. Io sono soprattutto un chirurgo oncologo addominale. Lo farò con il ministro della Salute Schillaci, così come voleva il Papa, e spero con il Vaticano. Vedremo».

Durante l’ultimo ricovero ha mai pensato che il Pontefice non ce l’avrebbe fatta?
«Sì, una notte erano state avviate le procedure che poi sono state eseguite lunedì. Abbiamo temuto il peggio e invece lui ha sorpreso tutti. Sapevamo che voleva tornare a casa per fare il Papa fino all’ultimo istante. E non ci ha delusi».

24 aprile 2025 ( modifica il 24 aprile 2025 | 07:01)