La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso di alcuni sopravvissuti a un violento respingimento in Libia avvenuto in acque internazionali il 6 novembre 2017. Ieri i giudici hanno affermato all’unanimità che, viste le circostanze, l’Italia non aveva giurisdizione. È la prima decisione sui «respingimenti per procura», quelli subappaltati alla “guardia costiera libica” nell’ambito del memorandum Roma-Tripoli del febbraio di otto anni fa (governo Gentiloni, al Viminale Minniti).
Nove mesi dopo, circa 130 migranti che viaggiavano su un gommone in pericolo hanno chiesto aiuto al centro di coordinamento dei soccorsi di Roma. Questo ha diffuso l’allarme. Il barcone è stato raggiunto prima dalla motovedetta libica Ras Jadir e poi dalla Sea-Watch 3. Durante l’intervento, in cui l’unità nordafricana ha usato violenza contro i naufraghi e praticato manovre pericolose, è scoppiato il caos. Il bilancio, per Sea-Watch, è stato di 59 persone salvate dalla nave umanitaria, 20 morti, 47 migranti riportati in Tripolitania.
DODICI SOPRAVVISSUTI hanno poi accusato l’Italia davanti alla Cedu di essere di fatto responsabile del crimine. Ma la Corte ha escluso che la Convezione europea dei diritti dell’uomo, di cui è istituzione di garanzia, permetta di stabilire una «giurisdizione extraterritoriale». Questa impostazione riguarda il caso specifico – i giudici sottolineano che Roma non aveva il pieno controllo della situazione, tanto che l’elicottero italiano giunto sul posto non era riuscito a fermare le violenze dei libici – ma ovviamente ha implicazioni più generali. «Mentre il modello Italia-Libia viene riprodotto altrove e diventa la norma, la pronuncia della Corte avrebbe potuto costituire un precedente significativo, chiarendo che la protezione dei diritti umani da parte dello Stato non può essere elusa attraverso politiche di esternalizzazione», afferma in un comunicato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che ha assistito i ricorrenti.
Paradossalmente la sentenza rileva che la Libia non è un porto sicuro, che in quel paese i migranti rischiano torture e invita gli Stati a rispettare gli obblighi che derivano dal diritto internazionale. Ma oltre le raccomandazioni non resta niente: la Cedu specifica di non avere competenza sulle violazioni di convenzioni e trattati, come quelli che regolano il diritto del mare, diversi dalla Convenzione europea. «Il nostro equipaggio era lì e ha testimoniato la violenza di quel respingimento e ha visto annegare decine di persone – accusa la portavoce di Sea-Watch Giorgia Linardi – L’appalto della violenza alla Libia per aggirare le responsabilità europee viene legittimato per via di una pura questione giurisdizionale, che non cancella la gravissima violazione del diritto internazionale».
«LA CORTE AFFERMA che esiste una chiara lacuna giuridica nell’applicazione della Convenzione, che non le consente di intervenire nonostante la chiara violazione delle convenzioni internazionali riconosciute nelle conclusioni», dichiara l’avvocata Loredana Leo, impegnata nel caso. Che lancia l’allarme: «In questa interpretazione la Convenzione potrebbe veder compromesso, attraverso l’azione degli Stati, il suo potere di proteggere i diritti fondamentali».
Proprio contro la Corte e la Convenzione è in corso un’azione lanciata da Italia e Danimarca che ha raccolto l’appoggio di altri nove paesi Ue, per ultimi Ungheria e Germania. Insieme propongono di ridiscutere la Convenzione, ritenuta troppo garantista verso i cittadini stranieri, e intanto fanno pressioni sulla Corte affinché sia più favorevole agli Stati in materia di immigrazione. È stata pubblicata il 23 maggio scorso, ma era stata fatta trapelare il 13 maggio. Una settimana prima che i giudici europei discutessero in camera di consiglio il caso. Un segno dei tempi. E del clima.