di
Gianluca Mercuri

Uno stallo nei negoziati tra Teheran e gli Usa, il rapporto Aiea che gli dà ragione, la necessità di rafforzare il governo – e distogliere i riflettori da Gaza: ecco cosa ha portato il premier israeliano Netanyahu a ordinare l’attacco, oggi

Perché Israele ha attaccato l’Iran proprio adesso? Il colpo era deciso – e pronto – da tempo, in modo da poter scattare nel momento più conveniente per il governo dello Stato ebraico, sia nelle dinamiche di politica internazionale sia in quelle di politica interna. Vediamo le 3 ragioni essenziali di una svolta che può cambiare il Medio Oriente.

1. Lo stallo nei colloqui Usa-Iran

Il primo ministro Netanyahu era stato colto di sorpresa dall’avvio dei negoziati sul nucleare tra l’amministrazione Trump e il regime degli ayatollah. Il presidente americano gliel’aveva annunciato due mesi fa davanti ai giornalisti mentre si incontravano alla Casa Bianca, e il premier aveva incassato con evidente stupore quella che era apparsa a tutti gli osservatori – ma anzitutto a lui – un’umiliazione fino a quel momento impensabile. Netanyahu aveva così constatato il costo che l’imprevedibilità di Trump può avere anche per Israele. I contrasti tra i due alleati erano all’improvviso evidenti: da allora non solo gli Usa hanno lanciato per settimane messaggi positivi (e ricambiati) all’Iran, ma hanno pure concluso una tregua separata con gli Houthi yemeniti. Soprattutto, Trump non ha nascosto l’insofferenza per la perdurante carneficina a Gaza, un ostacolo per il suo progetto di stabilizzazione del Medio Oriente fondato su accordi strategici di enorme portata con gli Stati arabi moderati, sia sul piano economico sia su quello militare.

Senonché, il negoziato con l’Iran è entrato in una fase di stallo di quelle che non piacciono a Trump, soprattutto in un momento in cui fatica a centrare i suoi obiettivi nel braccio di ferro col mondo sui dazi, e ha bisogno di risultati. I colloqui tra il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi e l’inviato Usa Steve Witkoff – che si sono visti cinque volte con la mediazione dell’Oman – sono arrivati a un punto morto, perché gli iraniani rifiutano la linea Usa di uno stop totale all’arricchimento dell’uranio sul loro territorio e gli americani non soddisfano la loro richiesta di cancellare subito le sanzioni economiche (cosa che Washington prenderebbe in considerazione solo in una fase successiva). Si tratta di misure che colpiscono decine di istituzioni vitali per l’economia iraniana e che proprio Trump ha introdotto nel 2018, dopo avere affossato l’accordo con gli iraniani raggiunto da Obama nel 2015. La proposta Usa prevede la costituzione di un consorzio regionale per la produzione di energia nucleare, formato da Usa, Iran Arabia Saudita e altri Paesi arabi. Ma gli iraniani l’hanno definita un «non starter», una posizione che impedisce lo sviluppo di ogni trattativa.

Di certo, Netanyahu ha fatto ora tabula rasa della via diplomatica. Era quello che voleva: in questo modo ha impedito l’eventuale riavvicinamento tra Usa e Iran. Che, nonostante Trump chiami anche in queste ore Teheran al negoziato, è impensabile a breve termine.

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2. Il rapporto Aiea che dà ragione a Netanyahu

In questa fase inconcludente dei colloqui, Trump dava l’idea di usare la minaccia di un attacco israeliano come strumento di pressione su Teheran. Di certo lo stallo faceva il gioco di Netanyahu. Ma quello che ha favorito la svolta è stato un documento che il premier israeliano ha sognato per anni: per la prima volta, un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha rivelato che le scorte di uranio di Teheran, arricchito al 60%, continuano ad aumentare, in violazione di ogni accordo. Per capire cosa queste parole significhino per «Bibi», bisogna pensare a tutte le volte che si è presentato all’Assemblea generale dell’Onu, a New York, con foto e piantine degli impianti nucleari iraniani e disegni della «bomba imminente» che ribaltavano l’assioma iraniano di una tecnologia nucleare da sviluppare solo per scopi pacifici. Per anni le denunce del premier israeliano sono state smentite, in quanto troppo allarmiste, sia dalla Cia sia dagli stessi servizi israeliani. Ma ora, per la prima volta, è l’autorità internazionale del settore a dargli ragione.

3. L’occasione per oscurare Gaza (e blindare il governo)

L’attacco all’Iran arriva non casualmente in un momento di enorme difficoltà per Netanyahu sia nei rapporti internazionali sia in politica interna. La strage quotidiana a Gaza sta riducendo Israele a Stato-paria, che nel linguaggio della diplomazia e della pubblicistica significa un Paese sempre più isolato e osteggiato sul piano globale. All’interno dell’Unione europea si sta formando una maggioranza di Paesi favorevoli alla sospensione dell’accordo di associazione con Israele. Ma soprattutto, sta prendendo forma un’iniziativa diplomatica che colpirebbe al cuore tutta la politica di Netanyahu di questi decenni. 

Francia e Arabia saudita stavano infatti organizzando per la prossima settimana a New York una conferenza internazionale con l’obiettivo del riconoscimento dello Stato palestinese, non come esito di un negoziato «ma come suo prerequisito». Le due potenze sono cioè arrivate alla conclusione che per favorire la pace va eliminata – almeno sul piano dei principi – l’asimmetria tra le parti, una con uno Stato riconosciuto anche dall’altra, e una no. 

Israele non è chiaramente pronto a questo passo ma la pressione di una conferenza internazionale lo avrebbe messo in ulteriore difficoltà: l’attacco all’Iran è utile anche perché può portare al rinvio dell’evento, o in ogni caso ad allontanare i riflettori sia dalla diplomazia sgradita sia dalla guerra a Gaza.

Allo stesso tempo, l’ennesima fase bellica può consentire a Netanyahu di stoppare le manovre dei partiti ultraortodossi, vitali per la sua coalizione, che in questi giorni sembravano pronti a staccare la spina per evitare che anche gli studenti delle scuole religiose siano obbligati al servizio militare, come il resto del Paese chiede da sempre. Tutte ombre che l’attacco ai siti iraniani allontana. Almeno per un po’. 

13 giugno 2025 ( modifica il 14 giugno 2025 | 06:28)