L’ho incontrato la prima volta alla buvette di Montecitorio, il confessionale laico della politica. Elio Vito era lì, solo, silenzioso, un’ombra in giacca blu. Aveva appena finito il suo intervento in Aula a favore del ddl Zan. In tribuna stampa lo sbeffeggiavano. «Quello lì? Quello che votò per dire che Ruby era la nipote di Mubarak? Ora fa il paladino dei gay?».
Sottinteso: o è matto, o è in cerca d’autore. E invece no. Nessuna conversione, nessun calcolo. La faccenda è più noiosa e più seria: Vito ci crede davvero. E ci crede da tempo.
Un napoletano gentile e solitario, con lo sguardo da eterno fuori posto. Trenta anni in Parlamento – un secolo, a pensarci oggi – passati a farsi largo tra i tavoli di un partito che non lo ha mai veramente amato, né capito.
I primi passi con Marco Pannella, poi tutta una vita con Silvio Berlusconi. Fino a quando il Cavaliere non ha rivolto lo sguardo altrove. La politica, si sa, è faccenda di famiglia e di fedeltà: se sei fedele e lo dimostri ti si copre, ti si promuove, anche quando sbagli. Se non lo sei, sei solo leale, vieni messo ai margini.
Vito non tornerà più in politica, dice. Ma ci gira intorno. Parla spesso con Dario Franceschini, nomina Ernesto Maria Ruffini ogni tre frasi. Studia, osserva, prende appunti. Conosce la grammatica e la geografia di Forza Italia meglio di chi oggi la rappresenta. E sulla nuova ondata giovanilista, quella che mette sotto accusa Roberto Vannacci e prova a difendere i diritti civili con parole da centrosinistra pronunciate a destra, nessuno meglio di lui può dirci se si tratta di una verniciata o di un cambio di stagione.
Da osservatore: cosa sta succedendo sul fronte dei diritti civili dentro Forza Italia? Nel suo ex partito, il coordinatore dei giovani forzisti, Simone Leoni, ha invitato Vannacci a vergognarsi: «Chi dice che i bambini disabili devono essere separati dagli altri, che chi ha la pelle nera non è italiano, che chi è gay non è normale, si deve vergognare». Mentre la nuova voce dei giovani di Forza Italia in Lombardia, Andrea Ninzoli, specifica: «Per me non ci sono differenze tra una coppia omosessuale e una etero. E noi temiamo chi si sente libero di odiare, non chi vuole amare». Parole che un tempo sarebbero sembrate provenire dalla sinistra, che invece oggi arrivano dal centrodestra. Vede una Forza Italia che cambia?
È naturale che i giovani abbiano una sensibilità verso il tema dei diritti. Ma non mi farei troppe aspettative. Ai giovani certo si chiede coraggio, determinazione nel prendersi la leadership del partito — perché se aspettano che gliela diano Antonio Tajani, Maurizio Gasparri o Paolo Barelli, stiamo freschi. Però queste uscite mi sembrano giovanilismo di facciata, maquillage per uscire sui giornali, nulla di più. Li guardo con simpatia.
Ai piani alti Marina Berlusconi si è detta «favorevole al matrimonio egualitario e al suicidio assistito, contraria alla GPA». Pier Silvio invece ha preso le distanze dicendo che ha opinioni meno progressiste della sorella.
Non farei troppo affidamento sulle dichiarazioni dei figli. Hanno ereditato questa rogna dal padre. La questione del partito, però, è in mano a Tajani. Mi fanno piacere le dichiarazioni sia di Marina che di Pier Silvio, ma hanno ereditato un partito che Berlusconi non è riuscito a mollare fino in fondo. Non mi pare che siano determinanti in certe scelte. In un partito, contano le candidature. E le candidature le farà Tajani.
Non pensa che Pier Silvio scenderà in politica?
Tenderei a escluderlo. Li conosco da quando erano piccoli. Hanno solo ereditato questa rogna entrambi. Ma pensano ad altro. Anche Urbano Cairo ha detto la sua quando ha fatto la presentazione, dicendo di voler rivedere la norma sul canale Rai. Se l’avesse detto Berlusconi, apriti cielo.
Sta per slittare il ddl sul fine vita scritto dal centrodestra. Che idea si è fatto?
La chiesa ha un’influenza eccessiva nella politica italiana. Una delle mie ultime proposte era abolire il Concordato. Sono intervenuti sul caso Englaro, sul ddl Zan, ora sul fine vita. Però, d’altra parte, il parlamento non può rinunciare a fare una legge. Deve farla. La farà il centrodestra, perché il centrosinistra non l’ha mai fatta. Abbiamo avuto solo una componente centrista, mai veramente di sinistra. Io votai il ddl Bazoli ai tempi del governo Draghi. Matteo Salvini minacciò di farlo cadere. Ma anche la sinistra è molto influenzata dalla chiesa. Temo che faranno una legge, ma sarà una cattiva legge. La destra fa la destra.
A questa destra destra c’è un argine?
Forza Italia ha rinunciato a essere la componente liberale sui diritti. È assolutamente schiacciata su Giorgia Meloni. A parte qualche uscita di Tajani per salvare la faccia e avere visibilità che i giornali, stupidamente, gli concedono. Pensa allo ius scholae: una boutade per far vedere che litiga con la Lega, mentre con la Lega governa.
Nel suo libro “Quel che so di loro. Trent’anni di un radicale in Forza Italia” (Rubettino editore) lei ricorda quel foglietto fatto intravedere da Berlusconi al Senato, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, con il suo sprezzante giudizio su Giorgia Meloni («supponente, prepotente, arrogante, offensiva»). Lo definisce il suo vero testamento politico. Possiamo dire che Forza Italia è stata divorata da questa destra?
Direi di sì. Ha rinunciato al suo ruolo. All’inizio avevamo fiducia. Berlusconi era attento ai diritti, aveva capito che per governare aveva bisogno della destra, la sdoganò. Ma era lui in posizione egemonica, e la destra era subalterna. Poi ha subìto la vicenda dell’interdizione e la Lega è diventata il primo partito per pochi voti. Lì ha ceduto lo scettro a Salvini, pur restando al governo con lui mentre noi eravamo all’opposizione. Meloni non gli piaceva, ma alla fine l’ha dovuta subire. Ha rinunciato alla sua leadership nelle ultime legislature.
Ci può raccontare come andò veramente in Forza Italia quando fu bocciato il ddl Zan?
In commissione ci eravamo astenuti. C’era un ddl di Giusy Bartolozzi, addirittura. Quindi eravamo più che favorevoli. Era capogruppo Mariastella Gelmini, che parlò con Zan e disse che se si approvava l’articolo 5 di Costa, sulla libertà di opinione, avremmo votato a favore. E su questo presupposto Zan accettò. Passò alla Camera. Poi intervenne direttamente Berlusconi. Al Senato sostenemmo le tesi peggiori della destra. Fu presentato un ddl anche per abolire la legge Mancino. Un appiattimento totale sulla Lega. Intanto la capogruppo Anna Maria Bernini faceva rainbow-washing sui social. Forza Italia faceva tutt’altro. Era chiaro che Berlusconi aveva deciso di lasciare la leadership alla Lega e, per farlo, rinunciava anche ai suoi valori più personali».
Quali valori personali? Berlusconi era noto per le sue battute omofobe.
Sì, faceva anche battute sessiste, più che omofobe.
No, la prego non mi faccia il santino di Berlusconi gay-friendly. Una frase tra le tante. Il 2 novembre 2010: «Meglio essere appassionati di belle ragazze che gay».
Erano battute. Non era omofobo. Casa sua era frequentata anche da persone omosessuali. Non aveva pregiudizi nemmeno sul lavoro. Non era quello il problema. Ma fece ben due comunicati contro il ddl Zan. E decise di accodare Forza Italia a dichiarazioni aberranti. Come quelle di Carlo Nordio in audizione, che paragonò l’omosessualità alla pedofilia. Cose di una gravità assoluta. Per me erano contraddizioni insanabili. Intanto Forza Italia seguiva Nordio su quelle uscite. In più, mi avevano chiuso tutti i canali di comunicazione. Avevo aperto un profilo Twitter e riuscivo a parlare solo lì. Andavo ai Pride, parlai alle manifestazioni di piazza pro-ddl Zan, ricordo quella organizzata dai Sentinelli a Milano. Poi decisi di dimettermi.
Scusi, ma dopo 30 anni in Parlamento, non parlava con Berlusconi?
Il 1° aprile feci un tweet da pesce d’aprile scrivendo che lasciavo Forza Italia. Uscì l’agenzia. In quel caso mi chiamò. Quando capì che era uno scherzo, disse che lo adorava. Gli dissi che sì, era uno scherzo, ma che le cose non andavano. Lui era consapevole. A giugno mi sono dimesso. Eppure si fidava di me. Una volta mi chiamò per chiedermi se doveva cacciare Renato Brunetta dal partito. Gli dissi di no. Chiedeva sempre consigli. Con un minimo di lucidità. Credo gli pesasse molto la subalternità che aveva allora verso la Lega. Aveva consegnato a Salvini la guida del centrodestra. Per varie ragioni, non ultima la politica estera: avevano simpatia per la Russia. Poi Salvini è venuto meno, è uscita Meloni. E posso aggiungere una cosa?.
Prego.
C’era una componente di misoginia nei confronti di Meloni. Berlusconi si era costruito un’immagine da latin lover, ma non accettava la leadership femminile. Avevo capito che il suo cinismo avrebbe prevalso su tutto. Pur di conquistarlo, Meloni ha fatto una vera operazione di occupazione del potere. Berlusconi aveva anche interessi economici e aziendali, lei ha solo la politica. Quindi è più cinica. Berlusconi aveva conflitti di interessi. Quello di Meloni è molto più totalizzante. C’è un asservimento totale: conferenze stampa quando vuole, video monologhi, polemiche con Lilli Gruber, Roberto Saviano. Mostra tratti autoritari. Posso dirlo, parafrasando Elly Schlein: io Meloni l’avevo vista arrivare, e me ne sono andato prima. E anche Berlusconi l’aveva vista.
Dia lei un giudizio su Giorgia Meloni.
Siamo stati amici da quando era vicepresidente della Camera. Un’amicizia che si era rafforzata col tempo. Eravamo due persone spaesate nel governo Berlusconi: lei per ragioni anagrafiche, io politiche. Sempre determinata, con una punta di cinismo, fedele alle sue radici. La destra è sempre stata nostalgica. Il problema non è che fosse fascista, ma che era — ed è — una destra reazionaria. All’epoca subiva Gianfranco Fini e Berlusconi, si stava emancipando da Fabio Rampelli ed era molto a disagio nel Popolo della Libertà. Fratelli d’Italia è stata la sua occasione per recuperare la propria storia. È sempre stata moralista. È stata brava a capitalizzare il suo partito.
Su Forza Italia ci sono speranze? Consigli per chi è di destra e ha a cuore i diritti civili?
O si dà una mano a Schlein lasciando perdere personalismi come Matteo Renzi e Carlo Calenda, e si costruisce una vera componente democratica, oppure si tenta di prendere la leadership di Forza Italia. Il tentativo più credibile oggi è Ernesto Maria Ruffini. Non è politico, non ha carisma, ma potrebbe costruire qualcosa di liberal-democratico con il centrosinistra. La “terza via” di Calenda e Luigi Marattin non esiste. Calenda si chiama fuori e di fatto aiuta Meloni a vincere. L’altra strada è prendersi Forza Italia.
E Tajani?
Lui ci sarà per questi due anni. Poi cercherà di dismettere l’incarico di capo partito per proporsi come “riserva della Repubblica”. Da ministro o da capo partito non può aspirare al Quirinale. Si farà dare la presidenza di una delle due Camere e punterà al Colle. Ma intanto metterà uno dei suoi a guidare Forza Italia. Non mi pare che i giovani abbiano la forza per opporsi.
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