di
Maurizio Caprara
Tajani: per la pace fondamentale il reciproco riconoscimento
Nella migliore delle ipotesi, dall’Italia evocare la soluzione «due popoli due Stati» serve a indicare ai palestinesi l’esistenza di un orizzonte mentre la situazione attuale lo preclude. Equivale, in mancanza di luce, a delineare a una parte inquieta di mondo la prospettiva di una immaginaria finestra, considerato che non è aperto né alle viste un negoziato israelo-palestinese su come passare dal tipo di convivenza di adesso a un assetto duraturo di pace robusta. Al momento peraltro, perfino in teoria, senza contare Israele, due almeno non potrebbero che essere gli eventuali Stati palestinesi: uno in Cisgiordania controllato dall’Autorità nazionale palestinese, alle prese con un logoramento e con l’invecchiamento del presidente Abu Mazen, 89 anni di età e venti di presidenza; l’altro nella Gaza tuttora governata da Hamas, formazione per statuto impegnata alla distruzione di Israele. Ove mai riuscisse, far nascere davvero uno o più Stati palestinesi senza offrire allo Stato ebraico garanzie di sicurezza avrebbe un effetto automatico: aggiungere un’altra guerra al conflitto in corso nella Striscia di terra tra Egitto e Sud israeliano.
Non è fortuito che il ministro degli Esteri Antonio Tajani, nel documento politico approvato dal Consiglio nazionale di Forza Italia, si sia premurato ieri di far evidenziare: «Il reciproco riconoscimento fra Israele e il futuro Stato palestinese è un punto d’arrivo indispensabile». Nel testo ci si prefigge di «lavorare perché la soluzione “due popoli, due stati” sia un serio punto d’arrivo e non una formula retorica». Su questo aspetto non sembrano esserci scollature sostanziali tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, Tajani, e con la Lega le differenze si possono riscontrare nei toni più che nella sostanza. Ciò non impedisce che la politica estera italiana, divisa tra più filoarabi e più filoisraeliani anche in governi della cosiddetta Prima Repubblica, sia alle prese con una prova nuova. Non solo e non tanto perché a sinistra, dalla maggioranza del gruppo dirigente del Partito democratico ad Alternativa verdi sinistra e ancora di più a Cinque Stelle, l’obiettivo dello Stato palestinese viene presentato come urgente.
La guerra di Gaza cominciata da Hamas e un’impostazione da bulldozer del governo di Benjamin Netanyahu, che non si cura di allargare le alleanze, hanno aperto un vuoto nel quale la rivendicazione di uno Stato che non c’è mai stato trova spazio e ha anche conseguenze non da tutti percepite. Su una linea che non coincide con quella del governo italiano, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia «riconoscerà lo Stato di Palestina» durante l’assemblea generale dell’Onu in settembre. La mossa lo pone alla testa del corteo di altri Paesi europei che si erano già indirizzati in questo senso: Spagna, Irlanda, Slovenia. Parigi potrebbe attirarne altri tra Malta, Paesi scandinavi, baltici, Regno Unito, malgrado resistenze. L’Italia potrebbe non sentirsi comoda in una frattura tra europei.
La mossa di Macron, prevista, è uno dei motivi per i quali giorni fa è cominciato a circolare tra ministri degli Esteri la dichiarazione comune secondo la quale «la guerra a Gaza deve finire ora», firmata finora da 28 Paesi, Italia compresa. In Israele l’appello è ritenuto ciò che ha spinto Hamas a ostacolare un’intesa sul cessate il fuoco alzando fino alla rottura il prezzo per la liberazione di dieci ostaggi israeliani: dal rilascio di 1.200 palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre 2023 e 115 ergastolani (sul quale c’era stata disponibilità) a 2.000 dei primi e 200 dei secondi (respinto). Un’impressione è che la richiesta corale di alt ai militari delle Idf abbia incentivato Hamas al rilancio. Riportando i pensieri al 7 ottobre: nel 2005 Israele concluse l’occupazione di Gaza e dal territorio governato da palestinesi è partito 18 anni dopo il massacro. Da allora l’idea di due Stati ha subito un danno letale in Israele. E ad Hamas non dispiace.