E ora la finale che tutti attendevano

(Gaia Piccardi) Sinner-Alcaraz, come natura crea. Anche nel deserto nascono i fiori: Six Kings Slam si regala la stessa finale dell’anno scorso, il meglio che il tennis contemporaneo possa offrire. E’ tutto così kitsch, laggiù in Arabia Saudita, però è inutile scandalizzarsi. La body-camera che Novak Djokovic ha accettato di indossare fa venire il mal di mare, quando se ne spoglia rimane una maglia rossa che agli occhi del giocatore in blu sembra una minaccia di guai imminenti. E allora Jannik Sinner affronta la semifinale dello show in onda a Riad che offre il montepremi più alto del tennis (6 milioni di dollari per il vincitore), con lo spirito agonistico che riserva ai tornei veri; d’altronde dall’altra parte della rete c’è il Djoker, un avversario che per mille motivi merita tutta la sua considerazione. Il tennis moderno (già quindici anni fa) di Djokovic è l’ispirazione che lo guida, nello sport non esistono copie conformi ma modelli da imitare. Djokovic è uno specchio nel quale guardarsi riflesso, Djokovic è il fuoriclasse che spiegò sia a Piatti che a Cahill i cambiamenti che il ragazzo avrebbe dovuto fare: giocare meno piatto, variare di tagli e traiettorie del servizio, rendersi più imprevedibile.
Ed eccolo lì, chioma rossa sul celestino del campo di Riad, l’allievo che ha già superato sei volte il maestro, le ultime cinque consecutive, Roland Garros e Wimbledon nell’anno in corso incluse. In palio non ci sono punti Atp, però a nessuno piace perdere. Il pregio maggiore di Six Kings versione Netflix è la ripresa televisiva a livello-court: restituisce bene l’idea di come Sinner sia sempre basso sulle gambe, quasi inginocchiato a dispetto dell’altezza, e della velocità a cui cammina, anzi corre, la sua palla. E’ su un tracciante a fil di rete con queste caratteristiche che il serbo, sceso a rete in modo troppo garibaldino, sbaglia la volée. E’ il break: 2-1. E adesso riprendilo tu, Djoker, il predestinato di Sesto Pusteria proiettato verso la grandezza. 4-2, 5-4, game a 15 per blindare il set (6-4) con l’83% di prime in campo. Il problema più insormontabile per Djokovic, formidabile risponditore, è proprio la risposta.
Questa stessa sfida, l’anno scorso a Six Kings, se la aggiudicò Jannik in tre set. Ai padroni di casa non dispiacerebbe se il match si allungasse ma la dedizione che Sinner dedica al servizio, unita alla concretezza spietata del suo tennis, leva qualsiasi illusione agli arabi. Un doppio break lo manda avanti 4-1: cancella due palle break con il servizio al sesto game (10 ace in totale) e chiude 6-2. Il Djoker è surclassato, la finale tra i due fenomeni che anche quest’anno si sono spariti i quattro Major è apparecchiata.
Il senso dell’esibizione di Riad ce lo spiega Carlos Alcaraz, che ha mandato ai matti Fritz a suon di smorzate e lob e che ci chiede di andare oltre le apparenze: «Capisco le critiche, ma a volte siete voi che non capite noi: il calendario è fitto e spesso ci lamentiamo di giocare troppo, ma le esibizioni sono diverse dai tornei. E’ una situazione completamente differente: nei tornei devo mantenere concentrazione e intensità per due settimane, senza pause; qui mi diverto giocando a tennis solo per un paio di giorni. Non è così impegnativo». La finale di Six Kings con Jannik, sabato sera, lo costringerà ad alzare il livello: Sinner-Alcaraz non sarà mai – mai nella storia del tennis – un’amichevole. Notizie dagli altri mondi: Berrettini esce da Stoccolma per mano di Humbert, Paolini e Musetti lastricano la strada verso i rispettivi Master (a Riad e Torino) con due buone vittorie a Ningbo e Bruxelles. C’è vita, lontano dai Sei Re.