In Italia il turismo sale, esplode soprattutto in alcune località a volte invase letteralmente, i centri storici si riempiono, e il profumo del cibo domina l’aria come i chiacchiericci dei “buttadentro” che nei centri storici più turistici cercano di convincerti a mangiare un’improbabile Carbonara alle 5 del pomeriggio.
The Spritzes and Carbonaras That Ate Italy
Ma cosa succede quando la “cucina italiana”, quella vera, rischia di essere divorata da se stessa? Ed è quello che ci sta succedendo?
Sul tema hanno ragionato (e stanno facendo discutere) la corrispondente di Roma del Ney York Times, Emma Bubola, e la sua collega Motoko Rich in un reportage dal titolo The Spritzes and Carbonaras That Ate Italy.
Il titolo è volutamente provocatorio e ironico, una tipica costruzione giornalistica in stile New York Times che gioca sull’esagerazione.Tradotto letteralmente sarebbe: “Gli Spritz e le Carbonare che si sono mangiate l’Italia.”
Ma il senso figurato è più interessante: significa che l’Italia è stata “divorata” dalla sua stessa immagine gastronomica, come se i simboli della cucina italiana (Aperol Spritz e pasta alla carbonara, cioè i piatti più iconici e inflazionati) avessero inghiottito la vera identità culturale del Paese.
Di cosa parla l’articolo sul cibo italiano del New York Times
“Sebbene gli italiani siano appassionati difensori della propria cucina, molti oggi temono che essa stia sommergendo i centri storici, soffocando i negozi locali e la vita quotidiana a vantaggio del turismo.
A Bologna, Firenze, Roma e Torino, intere strade si sono trasformate in quello che i critici definiscono «ristoranti a cielo aperto senza fine», dove si serve carbonara in padelle “instagrammabili” mentre donne tirano la sfoglia dietro le vetrine, in una sorta di zoo delle nonne italiane”
Bubola è partita da Palermo e da una via simbolo: Via Maqueda, ormai diventata un grande ristorante a cielo aperto.
Trentuno locali in poche centinaia di metri, arancine e cannoli a ogni angolo, spritz che scorrono come fiumi arancioni. “Magnifico”, dicono i turisti. “Troppo”, risponde il sindaco Roberto Lagalla, che ha deciso di vietare l’apertura di nuovi ristoranti nella zona.
Non è un caso isolato. Anche Firenze ha imposto stop simili in oltre 50 strade del centro, e altre città – da Bologna a Torino – osservano con inquietudine la trasformazione dei centri storici in food district tematici, dove l’italianità si vende come souvenir.
È la gentrificazione bellezza, e tu non puoi farci niente
Il fenomeno ha un nome, “foodification”: la gentrificazione a base di pasta, vino e selfie.
Il turismo enogastronomico rappresenta ormai quasi il 13% dell’economia italiana e negli ultimi dieci anni è triplicato (leggi anche il potere turistico della ristorazione )
Ma mentre arrivano crocieristi e influencer, i negozi di quartiere spariscono. “È come se i consumatori fossero ciechi e senza papille gustative”, dice ironicamente Maurizio Carta, assessore all’urbanistica di Palermo.
Parafrasando la celebre frase di Humprey Nogart ne “L’Ultima Minaccia”: “È la gentrificazione bellezza, e tu non puoi farci niente”.
Dietro la festa però, c’è un malessere. Molte città hanno perso identità e residenti nel centro, come accaduto a Palermo, Roma o Venezia. Le botteghe diventano fast food, i mercati si svuotano, i fruttivendoli cedono il posto ai locali “instagrammabili”. Eppure, una città vive anche grazie a questo turismo: lo riconosce nell’articolo di Bubola la guida italiana Valeria Vitrano, che pure ammette la contraddizione. “Ne faccio parte. Ed è questa la lotta.”
Intanto, il governo spinge per candidare la cucina italiana a Patrimonio Unesco, ma studiosi come Salvatore Settis invitano a guardare oltre il piatto: “Perché non provare a far nascere un nuovo Galileo invece di un altro chef stellato?”.
Nel frattempo, lungo Via Maqueda, gli spritz continuano a riempire i tavolini. “Di solito bevo birra”, dice un turista sloveno, “ma visto che sono in Sicilia, devo prendere un Aperol Spritz” (ma tu la conosci la vera storia dello Spritz?)
Forse il vero rischio non è l’omologazione del gusto, ma l’idea che l’Italia sia solo un menù da consumare. E quando ogni strada diventa un ristorante, il Paese rischia di smettere di cucinare se stesso.
Le reazioni all’articolo
Le prime reazioni al reportage del New York Times (che puoi leggere qui in originale, c’è il paywall ma costa solo 50 centesimi per una settimana, l’informazione se lo merita) oscillano tra ironia e autocritica. Sui social circolano post con titoli come “The Aperol Spritz Epidemic” o commenti sarcastici su “strade monocromatiche di carbonara”. Ma molti lettori italiani riconoscono la verità nel paradosso: l’Italia, nei luoghi colpiti da overtourism, rischia di diventare vittima di omologazione gastronomica.
Altri, come gli amministratori di Palermo e Firenze, preferiscono intervenire con regolamenti, limitando le nuove aperture e promuovendo un turismo più bilanciato.
Il dibattito resta aperto: come proteggere la cucina italiana dalla sua gentrificazione?
Forse serve tornare a cucinare per raccontare, non solo per vendere. Perché tra un aperitivo e una foto al piatto di pasta, rischiamo di dimenticare che la cultura gastronomica non è una scenografia, ma una pratica quotidiana che nasce dalle case, non dai menù turistici.
La buona notizia è che la maggior parte dei veri ristoratori lo fa già, che sono quelli che poi vi raccontiamo anche nella nostra rubrica Chef e Ristoranti.
Forse quello che andrebbe cambiato è la formazione del turista, soprattutto straniero, che rischia di essere la prima vittima del cibo italiano “trappola per turisti”. Ma questa è. un’altra storia.
O no?