Quanto è complicato in questo momento essere europei, essere per la pace nella giustizia, lavorare per costruire un futuro all’altezza delle sfide che ci pone davanti la complicata transizione storica che stiamo vivendo. Come sempre, nei grandi momenti di passaggio tende a dominare la voglia di “dirgliele in faccia”, di “farsi sentire perché non si può più tacere”. Poi troppo spesso tutto si impantana in queste pulsioni a manifestare, nobili fin che si vuole, ma abbastanza lontane dal prendere in mano situazioni complesse.
APPROFONDIMENTI
Le sfide che arrivano da chi cavalca i cambiamenti, perché si sente l’unto del Signore o semplicemente perché gli tocca a causa del ruolo che riveste, sono molteplici. Le più impattanti sono quelle che arrivano dal risorgere delle pulsioni neo imperialiste: perché non si tratta solo di competizioni per allargare e rafforzare le proprie sfere di dominio, ma di disegni per cambiare l’ordine esistente anche a livello sociale, economico e culturale. Si colgono le scosse sussultorie che essi trasmettono a tutte le reti che sorreggono i contesti in cui viviamo. L’esempio classico è la politica dei dazi che Trump proclama di avviare senza freni (poi vedremo quanto potrà durare e quanto sarà fumo e quanto arrosto).
Le due guerre e l’Europa sub iudice
Le preoccupazioni, e ancor più le paure e le angosce della gente, ma, intendiamoci, anche delle classi dirigenti responsabili che vedono bene la criticità del momento, devono essere tenute nel giusto conto. Come sempre, la fuga in avanti nell’utopia del cambiamento, radicale ma supposto benevolo, così come quella all’indietro del torniamo ai vecchi tempi, ha il rischio di condurci nel vicolo cieco che ci allontana dalla fatica della costruzione, graduale e razionale, delle soluzioni per la crisi presente e ci fa sbattere alla fine contro il classico muro, o ci fa finire nell’altrettanto classico burrone. La domanda dell’ora è dunque come si può produrre quella cultura diffusa che metta ai margini inutili massimalismi e radicalismi aiutando le popolazioni a ritrovare la voglia di un lavoro comune (faticoso) per costruire quel futuro di pace e sviluppo che pure è possibile.
Dittatori e autocrati
In momenti come quelli che stiamo vivendo c’è quanto mai bisogno di “governo”, che non vuol dire di dittatori più o meno democratici, di autocrati che ci dicono di fidarci e basta, tanto sanno loro come fare, di capi pseudo carismatici che ci ripropongono la favola del pifferaio magico. Il governo che serve è quello che nasce nella dialettica di classi dirigenti responsabili e consapevoli, ma tali non perché si sono attribuite da sé quella qualifica, ma perché se la sono guadagnata in un lavoro costante e con risultati che possono essere controllati.
Ai disegni di un riordino radicale del mondo facendo tabula quasi rasa di quel che si è costruito negli ultimi secoli (ma anche ben prima) si deve rispondere mettendo in campo gli strumenti per adeguare ai tempi di crisi e transizione quel che abbiamo a disposizione e per elaborare nuove risposte che non possono essere la riproposizione banale né degli equilibri venuti meno, né delle ricette del passato che erano tarate su altri contesti.
Navigare in mari tanto insidiosi non è, né sarà facile. Quando ci si trova in situazioni come quelle che abbiamo cercato di descrivere, è prioritario saper fare i conti con la realtà (quella dei fatti, non quella immaginaria, virtuale, che ciascuno può elaborare in risposta alle sue aspettative o alle sue paure). C’è bisogno di fare alcune scelte rischiose, ma necessarie. La prima è puntare sulla strutturazione definitiva di una dimensione europea: non un semplice mercato comune, più di un coordinamento fra stati ciascuno detentore di un potere di veto verso le scelte di maggioranza. Senza una Europa che possa godere di strumenti almeno molto simili a quelli in mano a chi governa i nuovi imperi non ci sarà possibile sfuggire ad un futuro in cui i singoli stati finiscano vassalli, più o meno privilegiati a seconda dei casi, di uno degli imperi che si profilano all’orizzonte.
Per questo sarà necessario affrontare il riordino dei vari ambiti: economici, sociali, culturali. Non con una “autorità” in mano ad una componente che vuole assoggettare le altre, ma con un sistema di produzione della decisione che la legittimi come frutto del convergere di una condivisa dialettica sociale e politica. In fondo questa è stata la grande rivoluzione costituzionale dell’Occidente dalla fine del XVIII secolo ad oggi: rivediamola per renderla adeguata ai tanti cambiamenti intervenuti, ma teniamocela cara e difendiamola, non solo a parole, contro gli attacchi a cui è ora sottoposta.
C’è anche una dimensione nostra in tutto questo. L’Italia ha tradizioni, esperienze e intelligenze per un ruolo da protagonista nella grande transizione in corso. Senza infantili iattanze, con il senso dei nostri limiti, ma con l’orgoglio di avere superato in altri momenti prove difficili. Dovrebbe essere quel famoso idem sentire che travalica le lotte di parte, per non dire di fazione: sappiamo bene che i venti che spirano sono in buona parte sfavorevoli per una navigazione del genere, ma è superando questi ostacoli che si mostra il proprio valore e ci si accredita per un futuro di sviluppo.