di Matteo Persivale

La vita di Nobuyuki Matsuhisa è stata una catena fallimenti: fino all’incontro, decisivo, con De Niro. Lo chef giapponese incarna alla perferzione il mito del sogno americano. Un documentario racconta la sua prima ricetta: credere in sé stesso

«NO-bu. NO-bu».
«MAT-su-hi-sa. MAT-su-hi-sa».

«Non c’è paragone, lo chiameremo Nobu, gli americani mangiano il cibo giapponese ma non parlano la lingua», dice il più grande attore del mondo al suo amico chef con la parannanza bianca e l’espressione imperscrutabile.

Quando si sono conosciuti, anni prima, Nobuyuki Matsuhisa non sapeva chi fosse quel cliente taciturno ma sempre estremamente rispettoso che si fidava sempre di lui e invece di ordinare dal menu gli diceva semplicemente «scegli tu»: non aveva mai visto film con Robert DeNiro. 



















































Nobuyuki al cinema non andava e non aveva la tv, lavorava e basta come aveva fatto fin da ragazzino perché la sua vita era tutta in quel piccolo ristorante al 129 di North La Cienega boulevard, Los Angeles, non una zona chic allora come adesso, e chic non era il ristorantino messicano lì a fianco che in seguito, con il successo, ha rilevato per espandere il locale. Aperto sette giorni su sette, all’inizio soli trentotto coperti per non strafare, lui a cucinare, la moglie Yoko cameriera-contabile-tuttofare («Mi fido di lei al 100%, lei di me al 90%»).

Il marchio globale del lusso e dell’ospitalità, Nobu, è nato così, una sera a Los Angeles, la penombra del sushi bar dopo l’ora di chiusura e la proposta di «Bob»: aprire una succursale di Matsuhisa nella sua New York, a TriBeCa, che nel 1993 stava esplodendo come nuovo quartiere delle gallerie d’arte e degli alberghi e dei negozi. Da Matsuhisa a Nobu, da ristorantino ritrovo semicarbonaro delle celebrities di Los Angeles a marchio con aspirazioni globali e lo sguardo a nuovi mercati.

La potenza

Da allora, da quel 1993, grazie a DeNiro e un altro socio, l’astuto businessman Meir Teper, «Nobu» diventa una potenza globale, una macchina da soldi e da espansione che necessita di continue aperture: cinquantasei ristoranti, quarantun alberghi (in attesa dell’imminente apertura in via Veneto a Roma, numero 42, e il nuovo piano quinquennale prevede un target di 80 hotel entro il 2030), un valore del brand abbondantemnente superiore al miliardo di dollari.

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Adesso che Nobu Matushisa è uno degli chef più famosi del mondo (e probabilmente il più ricco), esce negli Stati Uniti un documentario sulla sua vita, che non poteva non intitolarsi Nobu, diretto da quel Matt Tyrnauer che ha firmato tra gli altri Valentino: l’ultimo imperatore sull’ultimo hurrà dello stilista prima di lasciare il suo marchio. Lì si vedeva il «metodo Tyrnauer», con quella memorabile scena di Karl Lagerfeld che sussurra a Garavani, da kaiser a imperatore, «a parte noi due, gli altri fanno solo stracci».

Metodo evidente anche in questo film: che poteva diventare una sorta di agiografia a uso aziendale e invece è un film vero, pieno di rivelazioni e di cose che agli americani non piacciono tantissimo sulla carta, tipo la delusione e il fallimento.

Perché quando Nobu nel 1987 apre il suo ristorantino Matsuhisa a Los Angeles ha trentotto anni e alle spalle solo una lunga serie, impressionante, di fallimenti, che racconta alla telecamera di Tyrnauer senza fare sconti a nulla: l’infanzia funestata dalla morte del padre in un incidente motociclistico mentre andava al lavoro, l’adolescenza ribelle con l’incidente d’auto (guida senza patente) che gli era valso arresto processo condanna e libertà condizionata, l’umiliazione assoluta dalla quale l’aveva salvato un ristoratore che l’aveva preso a lavorare con lui. Poi la scuola (di rigore militaresco) per diventare sushi chef, la scienza del riso, del taglio chirurgico del pesce, l’occhio già unico per la presentazione grafica, irrituale, del cibo tradizionale nipponico.

Il talento acerbo ma già evidente a tutti che lo porta in Perù, dove si tuffa nella tradizione locale della gastronomia povera ma geniale, il ceviche, il coriandolo, le tecniche così diverse da quelle giapponesi, i pesci locali. Lì non fa fusion ma con estrema linearità adatta, reinventa, lavorando per un ristoratore peruviano con grande successo finchè quello non gli chiede di usare pesce meno pregiato, «la gente non capisce niente, tagliamo i costi drasticamente e aumentiamo il margine». Lui, giovane samurai, si rifiuta: raccoglie il coltello che conserva ancora – un cimelio, un giorno finirà in un museo – e torna in Giappone con la moglie Yoko, la figlia piccolissima, senza prospettive, senza altre proposte di lavoro. Emigra di nuovo – non aveva un posto dove stare – e apre con un socio un ristorante a Anchorage, Alaska, che in quegli anni viveva un boom a causa dell’industria petrolifera.

Il successo è immediato – è cucina d’avanguardia ai confini del mondo, e funziona: una lezione importante – ma dopo pochi mesi il ristorante brucia, l’assicurazione non paga. La sua ultima chance finisce in cenere, l’umiliazione è tanto devastante che pensa alla soluzione definitiva, da samurai: il suicidio. Torna con le figlie in Giappone, ancora una volta, archivia il sogno di mettersi in proprio e va a lavorare per altri, a Los Angeles: è il 1977, eccolo nell’anonimato preparare sushi in modo classico da Mitsuwa prima e poi da Oshou.
È una fase fondamentale per tutto quello che verrà più tardi: cerca di capire come il suo personale stile nippo-peruviano possa adattarsi al palato americano, lavorando al fianco di altri chef, imparando a conoscere il pubblico cittadino (a cavallo degli Anni 70 e primi 80 il sushi è ancora in stato embrionale nella ristorazione).

L’incontro-chiave fu con Robert de niro, alla fine degli anni 80. Fu lui a convincerlo ad aprire un ristorante a New York. Ora sono 56, oltre a 41 alberghi

Passano dieci anni e grazie a un prestito di 70mila dollari da parte di un amico ecco l’apertura di Matsuhisa dove è finalmente libero di reiventare la cucina giapponese (nel documentario, tra i colleghi che parlano di lui, spicca Jean-Georges Vongrichten che ridendo ammette «gli ho copiato un piatto, non ho resistito, come si fa?‚» e Wolfgang Puck che facendolo arrossire dice serissimo di lui «è il Picasso della cucina».
Tyrnauer, fortunatamente per gli spettatori ormai saturi di reality dove chef ai confini della psicopatia ululano cose terribili umiliando colleghi e concorrenti, ci risparmia le scenate che peraltro non appartengono allo stile di Nobu, e limita anche al massimo i primi piani del cibo, con luci studiate e obiettivi “macro” da rivista di food. Il regista sceglie semplicemente di mostrare, nei fatti, la filosofia del suo protagonista.
Eccolo allora uno dei concitati periodi prima dell’apertura di un nuovo ristorante nel quale esamina il lavoro dell’executive chef: un piatto la cui presentazione appare già bellissima all’occhio dello spettatore medio viene respinto una, due, tre, quattro volte, correggendo prima un elemento della presentazione e poi un altro. Nobu che pur mantenendo il tono di voce da maestro zen comincia chiaramente a irritarsi perché l’altro, come noi, non riesce a vedere quello che a lui risulta evidente, e quando finalmente è tutto giusto è una liberazione per tutti (e in cucina lo fotografano, quel piatto approvato, più come una reliquia che come un riferimento). Un’altra scena importante è quella con Nobu che dà le ultime istruzioni al giovane chef che andrà a dirigere la cucina del ristorante di Singapore di prossima apertura: rigido sull’attenti, pare il fantaccino in attesa dell’arrivo del generale che passerà in rassegna la truppa. Nobu lo guarda e con calore inaspettato non gli dà istruzioni sulla tecnica – sa già tutto, evidentemente – ma gli dice semplicemente «usa il tuo cuore», lasciandolo esterrefatto e ancora più irrigidito.

Gli spaghetti

Il cuore: Nobu, che ha anche un ristorante a Milano (c’è una scena dell’inaugurazione insieme con Giorgio Armani) potrebbe essere un italiano onorario: non soltanto perché, in un momento surreale, quando finalmente lo vediamo a casa sua, a Los Angeles, cucinare per sé e Yoko, non prepara qualche strano involtino dei suoi, tipo quelli famosissimi di granchio dal guscio morbido reso croccante in padella con avocado scalogno e uova di pesce avvolti in ravanello daikon al posto della solita alga. E niente miso di merluzzo nero, o riccola allo jalapeño.
No, il più famoso chef giapponese del mondo prepara a casa degli spaghetti pomodoro e basilico – direttamente in padella, senza bollire in acqua prima – con un po’ di peperoncino e la grattata finale di parmigiano finale. È italiano onorario per la normalità con la quale riesce a spezzare i ghiacci dell’assoluto riserbo nipponico per commuoversi, apertamente, nei momenti emotivamente più difficili del film.
La morte del padre, e la sua salvezza: da bambino amava seguire papà, che faceva il rappresentante e girava in motocicletta. Quel giorno gli disse di no, «vado troppo lontano», e lo lasciò a casa a aspettarlo.
La morte del suo migliore amico, suicida, e il senso di colpa sordo, devastante, ingiusto, umanissimo, che lacera chi rimane indietro: «Gli telefonai la sera prima, era triste, non voleva chiacchierare. Allora lo salutai, e chiusi la telefonata. Avrei dovuto restare al telefono con lui, farlo parlare». E proprio questa tragedia, nel 2017 – era l’amico che l’aveva accolto in casa sua dopo il disastro in Alaska, «quando nessuno mi voleva parlare al telefono perché temevano chiedessi soldi, ma avevo solo voglia di dire ciao» – è l’elemento che permette a Tyrnauer di prenderci per la gola. Nobu non ha mai voluto visitare la tomba, era troppo forte il senso di colpa. Finché decide di farlo, verso la fine del film, e lo vediamo con Yoko – da lontano, con il teleobbiettivo – versare le tazzine d’acqua del rituale shinto, chiedere perdono all’amico e ricordargli il suo affetto. Prima di andarsene, accarezza la spessa lapide di pietra e dice una cosa sola (per tutto il film, in cucina, lo si vede ricordare allo staff che l’elemento più importante di tutti è sempre la temperatura: nella preparazione e nel servizio). Guarda Yoko e dice: «È tiepida».

La scena di cui parleranno tutti – e che all’anteprima del TriBeCa Festival ebbe più successo – è quella del meeting. Il talento di Tyrnauer, come cronista (è un giornalista prestato al cinema dei documentari) è quella di entrare in situazioni apparentemente noiosissime perché sa che, prima o poi, tra tanti cespugli inutili troverà un tartufo. E così una riunione di routine tra i tre soci – Matsuhisa, DeNiro, Teper – diventa improvvisamente uno scontro di filosofie, e anche etico. Perché il paradosso al centro del fenomeno Nobu – la “Nobusfera”, la chiamano nel film – è che un artigiano geniale che fino ai 40 anni non aveva combinato nulla è al centro di una macchina che è tutto tranne che artigianale: l’industrializzazione del branding che si espande apparentemente all’infinito. Si comincia con DeNiro vestito in modo molto dimesso e di pessimo umore che ascolta una serie di dati che accompagnano delle diapositive di una presentazione. Quando sente che ci sono in programma altre aperture in alberghi di proprietà del fondo Blackstone, DeNiro fa una premessa che allarma chiunque conosca gli italoamericani di una certa età: «Senza offesa», che è il segnale che sta per dire qualcosa di sgradevole. «Capisco quello che noi portiamo a loro col nostro marchio. Non capisco quello che (con enfasi, ndr) LORO portano a NOI (ancora più enfasi, ndr). A quel punto Nobu pare marmorizzato, una statua. Teper, l’uomo dei “deal”, fa l’errore di dire gelidamente una parola sola: «Soldi». E quando DeNiro annuisce con lo sguardo di Jake LaMotta in Toro Scatenato lo spettatore si aspetta una rissa. È la scena che a un critico ha ricordato Goodfellas: DeNiro dice a Teper di non firmare l’accordo. «È già firmato», dice Teper nell’unico modo possibile, cioè in modo anodino. E a quel punto il loro collaboratore che si occupa della proiezione dei grafici vorrebbe sprofondare sotto il tavolo.
La tensione tra questi due elementi contrapposti, poesia e finanza, artigianalità e industria, è la contraddizione centrale del film e della figura stassa di Nobu Matsuhisa. Lo sa anche lui, per primo: in una scena invita degli amici a cena, sushi non pasta. Ha un sushi bar in tutte le sue case, e lì serve gli amici. Illustra i piatti uno per uno, tutti fatti da lui, con ingredienti unici. Alla fine, serissimo dice: «Sono 1000 dollari a testa». Tutti restano interdetti, finché lui scoppia a ridere, piccolo antidoto alle ottime e abbondanti contraddizioni della “Nobusfera”.

CHI E’ 

Nato a Saitama, in Giappone, nel 1949, perse il padre (nella foto a fianco) a 8 anni a causa di un incidente stradale. Lui e i suoi due fratelli minori vennero cresciuti dalla madre. A 15 quindici anni iniziò a lavorare come lavapiatti nel ristorante Matsue Sushi a Shinjuku, Tokyo. Sempre nello stesso ristorante, studiò i movimenti dei maestri di sushi e dopo sette anni fu invitato da un cliente abituale, un peruviano di origini giapponesi, ad aprire un ristorante giapponese in Perù: arrivò a Lima nel 1973. Tre anni dopo fu costretto a chiudere il ristorante, dopo una breve parentesi in Argentina si trasferì in Alaska. Ma il ristorante andò a fuoco due settimane dopo l’inaugurazione. Dopo un breve periodo in Giappone, tornò a Los Angeles e finalmente nel 1987 aprì un suo locale

26 luglio 2025 ( modifica il 26 luglio 2025 | 15:51)