di
Michela Nicolussi Morto

Gli Atenei di Padova e Verona: «Una catastrofe, ospedali a rischio chiusura»

A ripeterlo da tempo sono i medici: «Ora la vera emergenza del Servizio sanitario nazionale è la carenza di infermieri». Ne mancano 70mila in Italia, tremila in Veneto secondo la Regione, che avverte: l’età media è tra i 51 e i 54 anni, entro il 2034 molti andranno in pensione, aggravando la crisi. Inoltre il 54% lascia il posto pubblico per insoddisfazione. Aggiunge Andrea Gregori, segretario regionale del Nursind, sigla di categoria: «Se nel sistema pubblico non ne entreranno almeno mille all’anno, entro il 2029 si potrebbe scendere a -9000. E allora si dovranno chiudere gli ospedali spoke (quelli in provincia, ndr)». «Se il trend resta questo, in tre anni rischiamo davvero di chiudere qualche ospedale», conferma Angelo Paolo Dei Tos, presidente della Scuola di Medicina all’Università di Padova.

Ma il trend è addirittura peggiorato. Lunedì al test di ingresso a Infermieristica si sono presentati meno candidati rispetto agli ingressi a disposizione. In Italia a fronte di 20.699 posti per l’anno accademico 2025/2026 si sono registrate 19.298 domande e gli iscritti potranno essere ancora meno, perché hanno qualche giorno per immatricolarsi. L’allarme è più acuto al Nord, in particolare in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. L’Ateneo di Padova conta 744 iscritti (lo scorso anno accademico erano 900) su 1150 posti; l’Università di Verona rileva 503 iscritti su 830 ingressi (in realtà sono 974, ma mancano ancora le immatricolazioni della sede di Bolzano). 



















































Nella sede di Legnago, forte di 90 accessi, hanno scelto Infermieristica 53 studenti; nella sede centrale di Verona 195 (erano 289 lo scorso anno accademico), su 400 posizioni; a Vicenza in 73 seguiranno lezioni organizzate per 120 studenti; a Trento, sede gestita dall’Ateneo di Verona, è andata un po’ meglio: 182 immatricolati (lo scorso anno accademico erano 140) a fronte di 220 ingressi. E non è finita: di solito alla laurea arriva il 70% degli aspiranti infermieri e quindi se anche il 20% degli iscritti a Medicina bocciato al termine del «semestre bianco» è atteso a Infermieristica, il gap resta. Almeno del 10%.

Tutto questo a un anno dalla riforma della medicina territoriale varata dal Pnrr e focalizzata sulle Case di Comunità, ambulatori h12 o h24 affidati anche agli infermieri. Necessari come l’aria nelle case di riposo, visto che l’Italia è il secondo Paese del mondo, dopo il Giappone, con la popolazione più vecchia. «Una catastrofe — ammette Dei Tos — non so se aggravata dalla scelta scellerata di aprire a tutti il primo accesso a Medicina. Ora l’unica decisione che il governo può compiere è aumentare le retribuzioni per un mestiere oneroso, gravato da ansie, paure e rabbie dei familiari dei malati, e sottopagato. In Austria, Carinzia e Svizzera i salari arrivano a importi anche tripli, non si può più far finta di non vedere. La condizione dei nostri infermieri è insostenibile, chi arriva da fuori città non riesce nemmeno a pagare l’affitto. E poi ci vuole una riqualificazione professionale». 

E intanto come tirano avanti gli ospedali? «Bisognerà affidare le mansioni più semplici agli operatori sociosanitari, però a loro volta carenti nonostante i continui concorsi banditi dalla Regione — riflette il professor Giuseppe Lippi, presidente della Scuola di Medicina di Verona —. Non sono così convinto che chi non riuscirà a superare il test di Medicina si trasferirà a Infermieristica, benché 540 dei nostri 1200 iscritti l’abbiano scelta come seconda chance: già 18, per esempio, si sono spostati a Farmacia. Succede invece il contrario: la nuova modalità di ingresso a Medicina, con gli esami di Biologia, Chimica e Fisica da sostenere dopo sei mesi di lezioni, ha incrementato in un anno da mille a 1369 le domande, a fronte di 340 posti, probabilmente assorbendone molte altrimenti destinate a Infermieristica. E intanto l’emorragia degli infermieri continua verso il privato, che può pagare di più».

Non sono solo sottopagati, ma anche vittime di burnout e aggressioni continue, da parte di pazienti e parenti. «Per una media di 1650-1700 euro al mese siamo chiamati a coprire turni infiniti, notturni, festivi, a saltare riposi e ferie — racconta Gregori —. Dobbiamo assumerci responsabilità pesanti, anche penali, pagarci l’assicurazione obbligatoria, l’iscrizione all’Ordine, spesso pure la formazione. Cosa ci resta in tasca? Facciamo 20/30 ore di straordinari al mese, ma ci pagano solo il 40% del totale e il resto sarebbero giorni di ferie che non riusciremo mai a smaltire, vista la carenza di personale. Esistono mestieri molto più remunerativi che richiedono solo il diploma. Ormai la nostra professione è diventata una missione, ma di missionari ce ne sono pochi».


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10 settembre 2025