Luigi Maria Terracciano, rettore di Humanitas University e direttore scientifico dell’Irccs Humanitas – Uff. stampa Humanitas
«Il 2050? Saremo nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica che cambierà cure, diagnosi, il modo stesso di fare ricerca medica. Ma non mi faccia esagerare nel fare previsioni. Sa, sono napoletano e con la scaramanzia non si scherza…». 30 anni di lavoro in Svizzera, nel prestigioso, e forse anche un po’ austero, Policlinico universitario di Basilea, non hanno scalfito il carattere affabile e socievole, né il naturale sorriso di Luigi Maria Terracciano, di professione anatomopatologo, rettore di Humanitas University, direttore scientifico dell’Irccs milanese Istituto clinico Humanitas, dove ha raccolto l’eredità di un luminare del calibro di Alberto Mantovani.
Professore, le malattie cardiovascolari, il cancro, le patologie neurodegenerative sono, nell’ordine, quelle più mortali in Occidente. Come le vinceremo?
Grazie soprattutto ai profondi progressi tecnologici. Sono così repentini che ogni 3-4 anni arriviamo a qualcosa in grado di mutare le carte in tavola. La ricerca è trainata soprattutto dall’impetuosa rivoluzione digitale guidata dall’Intelligenza artificiale, che cambierà l’approccio alla ricerca e la stessa medicina. Ma ben prima del 2050!
In che modo?
Per secoli bisognava formulare una ipotesi che doveva essere poi provata o confutata dalla ricerca, la cosiddetta Hypothesis-driven science. Negli ultimi decenni è invece prevalsa la cosiddetta hypotesis-generating science, cioè è la scienza che di per sé genera dati con cui formulare ipotesi. Questo grazie soprattutto alle tecnologie che permettono l’analisi in tempi brevissimi di un’enorme quantità di dati con cui formulare ipotesi.
Un esempio?
Pensi ai sequenziamenti genomici. I tempi e i costi che avremmo impiegato 20 anni fa per sequenziare il Dna di una persona diventano oggi irrisori. Le faccio un altro esempio: io sono un anatomopatologo e ricordo bene quando nell’attività di ricerca su un unico vetrino esaminavo al microscopio un solo tumore. Oggi un vetrino istologico può contenere da 400 a 1.000 frammenti di tumori.
1.000 diversi tumori analizzati contemporaneamente?
Esatto. Ma questa rivoluzione comporta anche dei rischi.
Teme che l’IA possa in qualche modo arrivare a prevalere sulle scelte del ricercatore o del medico?
Temo una spersonalizzazione, chiamiamola così, del ruolo del ricercatore. Dobbiamo fare in modo che il ricercatore continui ad esprimere la sua originalità di pensiero. E che non sia solo un fruitore passivo dell’enorme mole di dati che ci arrivano. Avremmo inoltre bisogno, ora più che mai, nella scienza, di un nuovo umanesimo, in cui l’uomo si ponga responsabilmente al centro di questa rivoluzione tecnologica. Il paziente con i suoi bisogni, e il ricercatore utilizzandola e governandola con la sua capacità di visione, senza correre il rischio di cadere in una sorta di comprensibile pigrizia intellettuale.
Ma come può tutta questa rivoluzione arrivare in tempo reale al letto del paziente?
Qui c’è un altro punto nevralgico della medicina del futuro: la ricerca clinica non può essere disgiunta dalla cura giornaliera. Dobbiamo passare da ospedali e policlinici che fanno anche ricerca a centri di ricerca dove si curano i pazienti. Oserei definirlo, questo, un cambiamento copernicano. Ecco come vedo i prossimi decenni: un nuovo umanesimo, un cambio di paradigma dei centri di ricerca che curano, e poi la necessità di costruire vere e proprie reti di ricerca, i network scientifici per produrre risultati eccellenti.
L’Irccs Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano – Uff. stampa Humanitas
Ci aiuti a capire.
Non andiamo molto lontano se non mettiamo insieme saperi e pratiche dei vari centri di eccellenza. Humanitas ha rapporti continui con altri centri di ricerca accademica e non, nazionali e internazionali, come ad esempio lo Human Technopole di Milano, o con i più avanzati laboratori dell’industria farmaceutica. Solo lavorando al continuo rafforzamento di questo network si può raggiungere la necessaria “massa critica” per fare scienza di alto livello ed attirare talenti.
Come si curerà il cancro nei prossimi anni?
L’oncologia e l’ematologia stanno conoscendo una svolta epocale con l’avvento dell’immunoterapia. Nuove molecole hanno rivoluzionato lo scenario terapeutico utilizzando modalità di azione mai percorse. Ora è necessario individuare con estrema precisione quale paziente potrà beneficiarne, e perché ne restano altri che non rispondono ai nuovi trattamenti.
Quali sono le terapie più promettenti e suscettibili di ulteriore sviluppo in futuro?
Senz’altro la nuova classe degli anticorpi bispecifici, quelli immunoconiugati, le Car-T. Si tratta di cure potenti, oggi utilizzate soprattutto per le malattie oncologiche ematiche (leucemie, linfomi, mielomi, ndr). La sfida dei prossimi anni è utilizzare al meglio queste possibilità anche nei tumori solidi.
Quali?
Il cancro del polmone, per esempio, o il carcinoma epatocellulare, o i tumori urogenitali; nel caso delle Car-T anche per le malattie autoimmuni. Questa strada ci regalerà grandi successi in pochi anni. Un’altra grande speranza, che qui in Humanitas è un’eccellenza internazionale, anche per il lavoro svolto dal professor Alberto Mantovani, o dalla professoressa Maria Rescigno, è la vaccinoterapia. Dopo la straordinaria esperienza della tecnologia mRna nella pandemia da Covid-19, ci puntiamo molto, e sono ragionevolmente ottimista che i vaccini a mRna rappresenteranno una fonte di risultati significativi contro i tumori.
Eppure, professore, l’amministrazione Trump non sembra pensarla come la scienza, visto che il segretario del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti, Robert Francis Kennedy Jr, considerato vicino alle posizioni no-vax, ha deciso di annullare fondi per circa 500 milioni di dollari per la ricerca di vaccini mRna. Mentre in Italia il ministro della Salute Orazio Schillaci, ha dovuto annullare le nomine del Gruppo tecnico vaccini del ministero (Nitag), dopo che società scientifiche, accademiche e Ordine dei medici sono insorte a seguito della presenza di due medici ritenuti «non adeguati» per via delle posizioni “tiepide” espresse sui vaccini…
Quanto accade negli Stati Uniti va stigmatizzato, è un atteggiamento antiscientifico. Non dimentichiamo che, all’inizio del Covid, Trump non solo aveva negato la possibilità stessa di una pandemia, ma aveva suggerito delle modalità di cura pittoresche. I vaccini sono un’arma straordinaria e sicura. In quanto al caso del ministero e alle nomine del Nitag, credo che dobbiamo assolutamente evitare derive pseudoscientifiche. Ho vissuto all’estero il cosiddetto “caso Di Bella” (che prende il nome dal fisiologo, scomparso nel 2003, che proponeva una multiterapia con diverse molecole per curare il cancro ma che non ebbe riscontri efficaci nella sperimentazione avviata dal ministero della Salute nel 1998, ndr): abbiamo già dato per quanto riguarda la nostra reputazione internazionale. I colleghi stranieri erano esterrefatti dalla decisione di promuovere una sperimentazione scientifica di un “metodo” basato sul nulla. Mi sembra che ora siamo di nuovo punto e a capo.
Ritiene che l’imponente mole di ricerca sull’impiego di cellule staminali in ambito cardiovascolare e nelle malattie neurodegenerative, porterà ad una decisa diminuzione della mortalità?
Ne sono sicuro. La generazione di cellule staminali pluripotenti indotte, specifiche dei pazienti, rappresenta una fonte di ricerche ancora inesplorate da impiegare per una lunga serie di malattie, dalla riparazione dei tessuti cardiaci danneggiati dall’infarto, fino al trattamento della Sclerosi multipla. Ma sul cuore, qui in Humanitas, stiamo anche mettendo appunto un vaccino per lo scompenso cardiaco. Se funzionasse, rappresenterebbe una svolta storica. Perché noi pensiamo sempre a malattie ad alto impatto come l’infarto, o il cancro del polmone, ma se andiamo a guardare il numero degli scompensati cardiaci e quelli sull’invecchiamento della popolazione, ci rendiamo conto che questo vaccino può inaugurare una pagina nuova per la medicina.
I moderni laboratori di ricerca di Humanitas – Uff. stampa Humanitas
Cosa c’è, ancora, nelle frontiere più avanzate della ricerca mondiale?
Uno straordinario obiettivo che iniziamo a intravedere è quello della generazione dei cosiddetti organoidi, per i quali, già a Basilea, con altri colleghi, avevamo iniziato a lavorare, creando un laboratorio ad hoc.
Cosa sono gli organoidi?
Sono una specie di “avatar dei tumori”, ovvero delle riproduzioni tridimensionali complesse dei tumori di ogni paziente, sui quali è possibile tra l’altro testare i farmaci più avanzati, specifici per ogni paziente. L’Istituto Humanitas è l’unico in Italia, e tra i pochi in Europa, a disporre di una unità operativa di anatomia patologica che produce di routine questi “avatar” tumorali.
Professore, le nuove pandemie, i batteri resistenti agli antibiotici, i virus sconosciuti, ci minacciano. Come potremo difenderci da tutto questo?
Mentre la scienza lavora ad una nuova classe di antibiotici, la prima cosa da perseguire è fare rete. Il fatto che l’Italia non abbia sottoscritto l’accordo pandemico nazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità non è sicuramente un buon viatico. Eppure dovremmo aver imparato, almeno spero, la lezione del Covid, che ci ha detto prima di tutto una cosa: nessuno vince da solo. E ci ha detto che è fondamentale la collaborazione tra le istituzioni scientifiche nazionali e l’industria farmaceutica. Non dimentichiamo che le basi per il vaccino mRna sul Covid sono arrivate da una company, la “BioNTech” di Magonza (Germania); e quella scoperta è valsa il Nobel per la Medicina a Katalin Karikó e a Drew Weissman. Non far parte della rete pandemica mondiale significa chiamarsi fuori da un coordinamento vitale. Siamo l’Italia, una nazione dall’enorme peso scientifico, non dovremmo stare fuori dal Piano pandemico dell’Oms.
I prossimi anni ci regaleranno nuove cure, ma la prima non dovrebbe partire dalla prevenzione? E su questo, serve una svolta culturale?
La prevenzione è un argomento ineludibile. Dobbiamo fare prevenzione a tutti i livelli per quanto riguarda lo stile di vita, l’organizzazione degli screening ma iniziando con l’abbattere le enormi differenze tra le regioni nel nostro stesso Paese. Concordo sulla necessità di un cambio di passo culturale. A questo deve unirsi la moderna diagnostica, in grado di identificare molto prima che in passato i biomarcatori che ci svelano presenza ed evoluzione delle malattie. La prevenzione conviene anche agli Stati, alla sostenibilità delle cure, perché prevenendo si abbattono i costi di terapie costose e spesso molto lunghe. Ma, soprattutto, identificare una malattia in stadio precoce salva le vite.