22 luglio 2025, situation room del quartier generale de I400Calci a Val Verde. Nanni Cobretti segue in silenzio l’annuncio dei film selezionati alla [Ctrl+C, Ctrl+V] 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica dalla Biennale di Venezia. Il direttore artistico Alberto Barbera ha appena confermato la tanto rumoreggiata presenza, in concorso, di The Smashing Machine di Benny Safdie, palese film di menare. Alza la cornetta rossa della sua scrivania in marmo bianco, basta uno squillo prima della risposta: «Ho un lavoro per te».
01 settembre 2025, Sala Grande del Lido di Venezia. Centinaia di giornalisti, critici, influencer, passanti, macellai, cardinali e figli di tutti questi potenti assistono alla première di The Smashing Machine alla presenza del regista e dei protagonisti, Dwayne Johnson e Emily Blunt. Titoli di coda: 15 minuti di applausi e lacrime per l’ex wrestler ora pronto a spostare gli equilibri del cinema drammatico mondiale con questa performance già santificata da Premio Oscar, ma in mezzo alla sala qualcuno non si alza e non applaude. Ha la pelle verde e i capelli biondo platino, resta in silenzio, le mani conserte sotto il mento e un folto sopracciglio alzato. Il mondo deve sapere, pensa, tra il frastuono e le ovazioni.
06 settembre 2025, sempre nella Sala Grande. Cerimonia di premiazione della [Ctrl+C, Ctrl+V] 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica dalla Biennale di Venezia. Il presidente di giuria Alexander Payne proclama il vincitore del Leone d’Argento per la Miglior Regia: «Benny Safdie, per The Smashing Machine!», boato della sala, mentre il regista di Good Time e Uncut Gems si alza, sale sul palco, ritira il premio e si prepara a tenere il suo discorso celebrativo, quando dal fondo della sala si sente un botto. Le porte si spalancano e lo stesso uomo che abbiamo visto alla fine della première si divincola dalle guardie armate della Biennale e marcia verso il palco: «FERMI TUTTI! Questo premio non s’ha da fare!». Il nostro Fabrizio, per qualche motivo in prima fila con tanto di smoking, si alza incredulo e domanda il perché. La camera si stringe sul primo piano dell’uomo misterioso, musica carica di tensione: «Ora te lo spiego». Parte il flashback: SIGLA!
A questo punto vi spoileriamo il colpo di scena: l’uomo del mistero in realtà ero io! Pazzeschissimo Shyamalan Twist e non state troppo lì a fare i conti su quando sono arrivato a Val Verde e il fatto che non è possibile che il capo Cobretti mi abbia mandato in missione a Venezia già a luglio. Chi siete voi, gli storici che criticano i film di Ridley Scott? Il punto è che ero in sala a vedere The Smashing Machine e a giudicare dalle reazioni generali e dall’esito delle votazioni della giuria, ero anche tra i pochi in tutto il Lido a sapere che un film con questo titolo non solo è già esistito, ma è clamorosamente sovrapponibile a quello di Benny Safdie. Saperlo o non saperlo, averlo visto o non averlo visto, in questo caso ha un peso specifico notevole per valutare il tipo di operazione che è stato fatto nel biopic con Dwayne Johnson.
Se siete arrivati fin qui e ancora non sapete di che parliamo, riposatevi in questa oasi di recap oppure proseguite oltre: The Smashing Machine, che arriverà nelle sale italiane il 19 novembre 2025 con I Wonder Pictures, racconta la storia di Mark Kerr aka “La Macchina Distruttiva”, un uomo che per qualche anno è stato la definizione ambulante di “tizio che non vorresti incontrare neanche al supermercato”. Ex wrestler di livello mondiale, è arrivato in UFC (la più importante organizzazione nel campo delle Mixed Martial Arts a livello globale, Fabrizio) nel 1997 e ha fatto quello che sanno fare i mostri: spaccare tutto. Due tornei vinti di fila (UFC 14 e 15) con una facilità imbarazzante, avversari schiacciati come zanzare sul parabrezza, e un’aura da cyborg incapace di perdere. Poi, come spesso succede nei film brutti ma anche nella vita vera, il dramma si prende la scena: antidolorifici, crisi personali, scelte discutibili e un passaggio in PRIDE (la lega di MMA giapponese) che lo ha consacrato più come tragedia greca che come campione imbattibile. Alla fine Kerr è diventato l’eroe caduto per eccellenza dell’MMA, simbolo di quanto questo sport possa essere glorioso sul ring e devastante fuori.
Questa è l’immagine che poi vi farà dire “Ehi, questa scena l’ho già vista, è un classico!” come Michael J.Fox in Ritorno al Futuro. Ricordatela.
Erano anni che Dwayne Johnson tentava di realizzare un film su Mark Kerr: ex wrestler come lui, metaforona facile sulle difficoltà della vita, ruolo drammatico in grado di consacrarlo come attore buono per tutte le stagioni e non solo per i blockbusteroni… insomma, va ammesso: The Rock ha scelto davvero la storia giusta dal depliant che il suo team di PR gli ha chiaramente messo davanti per dare una svolta alla sua carriera. Tutti i pezzi al posto giusto, compreso il fatto che con buona probabilità 9/10 spettatori che andranno in sala a vedere il film di Benny Safdie non sapranno che nel 2002 è stato realizzato un documentario dal titolo The Smashing Machine: The Life and Times of Extreme Fighter Mark Kerr, e quindi neppure riusciranno a capire quanto Safdie e Johnson gli siano debitori – anzi, per certi versi proprio plagiatori. Prima che partano lettere dagli avvocati: nessun dubbio sulla legittimità dell’operazione, i diritti del caso sono stati pagati, ma siamo davvero di fronte a un esempio di appropriazione del lavoro, delle idee, delle parole, delle ricerche di un’altra persona, presentando il tutto come proprio omettendo di citare la fonte originaria, o quantomeno nascondendola bene.
In The Smashing Machine – Il Film ci sono intere scene ricalcate passo passo da The Smashing Machine – Il Documentario, sovrapponibili al punto che se si è visto il secondo prima del film il parallelismo non è solo evidente ma diventa un focus d’attenzione primario, come quando ci hanno detto che Natalie Portman e Keira Knightley non erano la stessa persona e da allora le fissiamo male ad ogni film. Mark Kerr che si buca nel bagno di casa, le sue visite mediche, il confronto con il collega e amico Mark Coleman e persino il modo in cui il vero Kerr si mette a piangere in ospedale dopo un ricovero, nella versione con Dwayne Johnson c’è tutto questo riportato con le stesse inquadrature, le stesse battute, gli stessi identici gesti. Lo stesso vale per le tanto amate scene di menare: col suo passato, The Rock qui può dire chiaramente la sua e non c’è un singolo momento che risulti posticcio, ma quando si raggiungono gli snodi narrativi importanti riecco che ci sia affida alle riprese del documentario per riportare con assoluta fedeltà posizioni, colpi e quant’altro. È come vedere un film che inizia con Also sprach Zarathustra di Richard Strauss e una tribù di ominidi che si ritrova all’improvviso un monolite nero fuori dalla grotta, poi uno di loro inizia a colpire carcasse di animali con un osso, lo lancia in aria e sbam stacco su una navicella spaziale in orbita, e nessuno – NESSUNO – in sala alza la mano per far notare che è tale e quale all’intro di 2001: Odissea nello spazio. Questo livello di mimesi.
Questa è l’immagine che poi vi farà dire “Oh-oh-oh! *Fischio* Eccoci qui” come Leonardo DiCaprio in C’era una volta a… Hollywood. Ricordatela.
Tutto questo rende The Smashing Machine un Film Brutto®? Assolutamente no, perché come è ovvio che sia Benny Safdie non si è limitato a fare copia-incolla ma a ha dato una struttura alla storia e una profondità ai personaggi che la pretesa di realtà del documentario riusciva solo in parte a far arrivare. La cornice narrativa e lo sviluppo della trama è identica, ma per esempio viene dato molto più spazio al rapporto complicato tra Mark Kerr e la fidanzata Dawn Staples (Emily Blunt). Nella storia di Kerr ci sono tutti quegli elementi che piacciono al più giovane dei fratelli Safdie: l’estetica viscerale, il personaggio borderline in fuga o in rincorsa – criminali disperati, tossicodipendenti con un barlume di redenzione, sognatori autodistruttivi: Mark Kerr le spunta quasi tutte, queste categorie – e uno stile già documentaristico di suo. In questo caso ha lavorato in sottrazione rispetto al caos che permeava Uncut Gems, ma c’è comunque quel suo tipico realismo che risalta l’imperfezione, dove lo spreco e l’ansia diventano vettori espressivi, non errori stilistici. Soprattutto, Safdie riesce a mantenere quello che è diventato involontariamente il cuore tematico del documentario, a posteriori: una rilettura del dramma sportivo non condizionato dall’assolutismo della vittoria, ma dalla presa di coscienza che si può anche perdere, che non c’è vergogna nella sconfitta e tutto quel filone esistenziale che sta andando sempre più per la maggiore in quest’epoca segnata da un’attenzione nuova verso la salute mentale e gli isterismi-distruttivi. The Iron Claw, per esempio, ha detto cose simili con tizi muscolosi diversi.
Torniamo però al punto iniziale: cosa mi ha fatto irrompere nella Sala Grande durante la cerimonia della [Ctrl+C, Ctrl+V] 82. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica dalla Biennale di Venezia per fermare la consegna del Leone d’argento a Benny Safdie (cosa successa davvero eh, lo giuro, solo che non l’avete visto perché è successo durante la pubblicità)? Il fatto che se le scene più intense del film, quelle che portano sulle grosse spalle di Dwayne “The Rock” Johnson il peso emotivo della storia e del personaggio sono la copia sputata di qualcosa che esiste già, forse allora la portata del lavoro di Safdie e persino la stessa “sconvolgente trasformazione roba che Stanislavskij spostati” di Johnson va un po’ ridimensionata e così l’assegnazione del premio. Resta un ottimo rimpasto, un film con solidissimi argomenti, ma il cui giudizio viene per forza di cose condizionato dalla percentuale di pappa già pronta che si sono trovati in tavola. Ma siccome in quel di Venezia il numero di persone che ha visto l’originale documentario si conta probabilmente sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino, sono stato preso per pazzo e buttato fuori dalla sala, picchiato e crocifisso in Sala Pasinetti durante la proiezione di un corto cecoslovacco in bianco e nero a camera fissa sulla vita di un sasso sui Monti Urali. Quando il film uscirà in sala e quando vedremo Benny Safdie tra i candidati agli Oscar, ricordatemi però come uno che ha provato ad avvisare il mondo.
Questa invece è solo per ricordarvi Benny Safdie in Happy Gilmore 2. Dimenticatela, se potete.
Nota finale: il regista del documentario originale del 2002 altri non è che John Hyams. Proprio lui, quello di Universal Soldier: Regeneration e il sequel Il giorno del giudizio. Nel film è accreditato come “consulting producer” (traduzione: presenza simbolica, zero potere decisionale e pochi spicci) e dopo aver visto il trailer in un’intervista ha dichiarato: «Ci sono molti momenti che sono davvero ricostruzioni fedeli e meticolose — anche di cose innocue, come preparare frullati o correre su per le scale a Newport Beach». E ancora: «C’è qualcosa di surreale in tutto questo, a dire il vero. Quando ho visto quel trailer e quelle immagini… davvero solo quattro persone al mondo conoscono ogni singola inquadratura di quel film così intimamente, ed è il team che ci ha lavorato». Anche questa volta siamo con te, John!
Poster Quote:
“Il più clamoroso caso di plagio da Creep dei Radiohead contro Get Free di Lana Del Rey”
Lou Ferragni, i400calci.com