Il Ddl sul femminicidio
(Elisa Messina) Arriva al Senato il Ddl governativo che renderà il femminicidio un reato a sé stante rispetto all’omicidio volontario, una “fattispecie di reato”, si dice in linguaggio giuridico, per il quale è previsto l’ergastolo. Non solo femminicidio, il ddl varato dal Consiglio dei ministri l’8 marzo scorso prevede aggravanti e aumenti di pena per i reati di maltrattamenti personali, stalking, violenza sessuale e revenge porn. Intanto, mentre entra nel vivo l’iter parlamentare della legge, la conta dei femminicidi o presunti tali, dall’inizio del 2025, è già arrivata a 50. Numero che diventa 53 o 54 se si includono quelle morti violente per le quali non c’è al momento nessun indagato.
Il percorso del ddl non si preannuncia però per nulla semplice e scontato. Tanto per cominciare, il testo che arriverà a Camera e Senato, sarà diverso da quello diffuso a marzo in seguito a una richiesta di emendamento redatta dalla presidente della Commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno e dalla senatrice Susanna Campione di FdI. E proprio nella sua parte iniziale, quella in cui si definisce il reato, l’impianto della legge. Questo dopo una serie di audizioni avvenute in Commissione e in cui sono stati ascoltati docenti universitari di diritto penale, magistrati e in ultimo, rappresentanti della società civile, tra cui i centri antiviolenza.
Ma su questo ddl pesa anche, e non poco, la bomba sganciata a fine maggio da 80 giuriste italiane, 80 docenti di Diritto Penale, che, con un’articolata relazione e vari interventi sulla stampa, ne hanno smontato l’impostazione e messo in discussione l’efficacia. Mentre dalla rete dei centri antiviolenza arriva soprattutto la preoccupazione sulle possibili conseguenze, per le vittime, di una cattiva interpretazione della legge da parte di operatori della giustizia non adeguatamente formati (giudici e avvocati).
Andiamo con ordine: l’emendamento. Nel precisare il nuovo reato per il quale, ricordiamo, è previsto l’ergastolo, nel testo originario del ddl si definiva «femminicidio» l’omicidio di una donna «quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Nel nuovo testo, recependo almeno in parte la critica di eccessiva genericità, la definizione del reo di femminicidio diventa: «Chiunque cagiona la morte di una donna, quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o è conseguenza del rifiuto della stessa di stabilire o mantenere una relazione affettiva ovvero di subire una condizione di soggezione o comunque una limitazione delle sue libertà individuali, imposta o pretesa in ragione della sua condizione di donna, è punito con l’ergastolo».
I cambiamenti sono significativi: sparisce il riferimento alla «repressione dei diritti o dell’espressione della personalità» e si introduce il concetto di «rifiuto»: per parlare di femminicidio l’assassinio deve essere la conseguenza di un rifiuto da parte della donna di «stabilire o mantenere una relazione». La stessa modifica è apportata alle aggravanti previste dalla legge per altri reati (ad esempio maltrattamenti in famiglia, lesioni, stalking).
Inoltre si prova a contestualizzare di più quella definizione «in quanto donna»: nella nuova versione, si parla, infatti, di un delitto commesso per punire colei che si oppone a quella condizione di soggezione in cui si trova in quanto donna. Va detto che quel «in quanto donna» non è una definizione proprio di facile comprensione. Si dirà: l’importante è che la capiscano i giudici. Ma il punto è proprio questo. «Mi piacerebbe fare un test a giudici e avvocati, – osserva Elena Biaggioni, penalista che fa parte del gruppo avvocate della rete Di.Re, la più grande rete di centri antiviolenza in Italia – per vedere quanti sanno davvero cosa significa questo concetto che si rifà agli studi di Marcela Lagarde ed è ripreso dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza, la Convenzione di Istanbul, ma che non è nota a chi non si occupa di studi di genere. Con questa specificazione si vuole dire che il femminicidio, non è omicidio di una donna anziché di un uomo – sarebbe contrario al principio di uguaglianza – ma è l’omicidio di una donna in un contesto, che è quello della sua strutturale discriminazione, quello della asimmetria di potere tra donne e uomini. Quindi è importante che questa legge riconosca la specificità del delitto di genere ma sarà sufficientemente chiara nella formulazione finale? Quanto verrà capita, poi, nella pratica, dagli operatori della giustizia?».
Le modifiche introdotte dall’emendamento da rappresentanti della maggioranza competenti sul tema, come l’avvocata Bongiorno, vanno incontro alle critiche espresse dagli addetti ai lavori nelle audizioni in Commissione. Per esempio, quelle di Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che aveva parlato di «indeterminatezza del reato» e di conseguenza, della difficoltà di reperire le prove da parte dei pm. Parodi denunciava anche il rischio concreto di intasare le procure, visto che tra le novità della legge, c’è anche quella che prevede l’obbligo da parte del pm di ascoltare entro 3 giorni le vittime di violenze e stalking.
L’emendamento Bongiorno è arrivato anche dopo la bocciatura di 80 giuriste che, il 27 maggio scorso, in un documento congiunto, hanno parlato del ddl come di una legge-manifesto, un atto di propaganda senza efficacia concreta. Secondo le giuriste non si agisce contro un tema strutturale come la violenza di genere a colpi di codice penale. Le promotrici, Milli Virgilio e Silvia Tordini Cagli dell’Università di Bologna, sono state esplicite poi sul punto della deterrenza: «Nei Paesi dove è stato introdotto, (il reato di femminicidio) non ha portato alla diminuzione delle donne uccise». E comunque il nostro Codice Penale ricordano le accademiche, prevede già una serie di aggravanti per i delitti di genere: non a caso sono stati condannati all’ergastolo e senza bisogno di un reato ulteriore, femminicidi come Filippo Turetta, Alessandro Impagnatiello e, sentenza di pochi giorni fa, Igor Sollai (omicida della moglie Francesca Deidda). Insomma, per le giuriste fare una nuova legge punitiva, specie sull’onda emotiva suscitata da certi delitti, è un’operazione facile e a costo zero, ma che perderebbe di significato senza una contestuale azione di prevenzione della violenza basata su formazione, educazione e lavoro sul territorio.
Ma se dalle giuriste la bocciatura teorica e politica è netta, più aperta al confronto è la posizione dei centri antiviolenza che ogni giorno, sul campo, si confrontano con donne che vivono la violenza maschile: la nuova formulazione «emendata» del reato vien vista come un passo avanti nella definizione del contesto in cui avviene la violenza sulle donne. «Avremmo apprezzato, però, essere coinvolte nell’iter della legge, come prevede la convenzione di Istanbul – fa notare Cristina Carelli presidente D.i.Re, – e collaborare con le istituzioni; ma fin dall’inizio, non in audizioni di pochi minuti e a testo di legge già pronto. Siamo consapevoli che non sarà un nuovo reato che prevede l’ergastolo a cambiare il sistema di disparità culturale in cui avviene la violenza di genere. Ben vengano le nuove norme, ma solo se hanno la forza di aggredire alla radice il fenomeno della violenza».
«Questa legge deve essere utile a riconoscere un fenomeno, se non riesce a farlo ha fallito», osserva l’avvocata Biaggioni. La grande incognita sono le possibili conseguenze che una legge non correttamente definita può avere in sede processuale. Proviamo a spiegare meglio. Se la legge identifica il delitto come conseguenza di un rifiuto a iniziare o proseguire la relazione il rischio è che si consideri il femminicidio solo dove c’è una relazione affettiva. «La difesa farà di tutto per dimostrare che quel delitto non era conseguenza di un rifiuto – spiega Biaggioni – . Nello sforzo di definire il più possibile il reato si rischia di snaturare il concetto di stesso di femminicidio e lasciare fuori molte ipotesi. Si perde il contesto del delitto di genere e in sede processuale inizierebbero tutti i distinguo: non l’ha uccisa per il rifiuto ma perché c’era una questione di soldi. Oppure di salute. Oppure di gestione dei figli. Oppure perché hanno litigato e lei lo ha insultato».
In base alla nuova legge quello di Giulia Tramontano da parte di Alessandro Impagnatiello sarebbe stato identificato come femminicidio? Non c’era stato un rifiuto da parte di lei. Inoltre, come verranno intesi, per esempio, gli omicidi di prostitute? O quelli che vengono definiti «femminicidi compassionevoli», quando lui uccide la moglie anziana malata? «Vedo un concreto il rischio di vittimizzazione secondaria, con le vite delle vittime scandagliate alla ricerca di prove che allontanino dal colpevole il nuovo reato – osserva Biaggioni – . Il problema, alla fine, non è la pena. Perché l’ergastolo, in certi delitti arriva comunque, lo dimostrano molte sentenze. Ma capiterà che non si riuscirà a provare che si è trattato di femminicidio anche se il contesto è quello. Ecco cosa ci aspetteremmo da questa legge: una lettura coerente della realtà. Non per avere la certezza dell’ergastolo, ma per far sì che, poi, le sentenze rispecchino quello che succede e riconoscano il contesto di disparità in cui questi delitti avvengono».
Criticità e incognite non sono solo a valle, in quello che può succedere durante i processi con questa nuova legge, ma anche a monte nel sistema di prevenzione e soprattutto nella valutazione del rischio che corre ciascuna donna che chiede aiuto. «Le donne hanno bisogno di un sistema antiviolenza attrezzato perché certi eventi, soprattutto quelli più drammatici, si possano prevenire, contesti penali che riconoscano la specificità dei loro vissuti e capaci di riconoscere e valutare i rischi ad essi collegati» dichiara l’avvocata Marta Buti, consigliera nazionale D.i.Re
Per questo centri antiviolenza, associazioni, sindacati, e ong come Action Aid chiedono maggiore coinvolgimento nelle azioni decise dal governo per contrastare la violenza. E nello specifico il riferimento è al nuovo Piano Strategico nazionale (quello vecchio è scaduto nel 2023) che il governo presenterà a breve e che è dedicato a politiche di contrasto alla violenza maschile sulle donne. La modalità di azione di questo esecutivo «è opaca, ignora il valore della co-progettazione e non contempla l’esperienza di chi agisce ogni giorno per la liberazione delle donne dalla violenza patriarcale», denuncia Carelli. Un modo di agire che appare in contrasto con le intenzioni formali di voler essere un governo in prima linea contro la violenza.