Non è un caso che pensando a Wish You Were Here, la prima parola che mi venga in mente per descriverlo sia: follia. Non è un caso perché la follia, nell’accezione più distruttiva del termine, è uno dei temi di cui questo disco – leggendario, immortale e poi le parole si sprecano e risultano banali – tratta. Ma perché è un disco folle? Forse è folle per chi – forse stupidamente – a confronto con i dischi di oggi. Riassumiamo il nono disco dei Pink Floyd in maniera spiccia, ma giusto per addentrarci meglio nell’analisi: è composto da cinque brani, due dei quali in realtà racchiudono le nove sezioni in cui è stata suddivisa la composizione principale, Shine On You Crazy Diamond, altri due sono delle aspre critiche nei confronti della vita moderna e dell’industria musicale di allora – Welcome to the Machine e Have a Cigar – e quella rimanente è Wish You Were Here che è tra le canzoni più belle di sempre. Durano tutte più di cinque minuti, e due arrivano a superare i tredici, forse lo considero una follia perché se uscisse oggi un disco così composto forse non lo ascolterebbe nessuno. Troppo lungo, troppo complesso, troppo difficile da apprezzare, è roba che non si consuma, che non si scrolla, è qualcosa che richiede attenzione e oggi «attenzione» è qualcosa che manca e che pare irrecuperabile. Nel 1975, però, quell’audacia non era un’anomalia assoluta: il rock progressivo viveva la sua stagione d’oro, e i Pink Floyd non facevano che spingere più in là un linguaggio già abituato a strutture lunghe e concettuali. Folle sì, dunque, ma in un modo perfettamente coerente con l’epoca, c’erano già i concept album e le sperimentazioni erano già entrate a far parte del linguaggio musicale, con gli Yes, i Genesis, King e gli stessi Pink Floyd con The Dark Side of the Moon due anni prima.

La follia di cui parlavano i Pink Floyd non era concettuale e astratta, ma un’esperienza diretta, passata attraverso Syd Barrett. Carismatico fondatore della band e autore della maggior parte dei brani del primo album, The Piper at the Gates of Dawn (1967), Barrett era stato l’anima creativa del gruppo, ma già sul finire degli anni Sessanta, l’uso massiccio di droghe iniziò a compromettere il suo equilibrio. Nel 1968 i compagni furono costretti a sostituirlo con David Gilmour, e poco dopo Barrett lasciò definitivamente la band. Shine On You Crazy Diamond fu semplicemente per la band il modo struggente per rendere omaggio a Barrett. Durante le sessioni finali di Wish You Were Here, il 5 giugno 1975, i membri della band lo vedono per l’ultima volta. Sono negli studi di Abbey Road per rifinire il mix di Shine On You Crazy Diamond, all’inizio nemmeno lo riconoscono. Si dice che Syd abbia anche sentito la canzone che i soci gli avevano dedicato e abbia commentato: «Sounds a bit old» (Suona un po’ vecchio). Uscito dalla porta degli studi, gli altri non l’hanno più visto.

Ma questo è solo uno dei tanti aneddoti che accompagnano Wish You Were Here. C’è poi quello dell’uomo in fiamme che appare sulla copertina. Oggi penseremmo a una immagine creata con l’AI, ma le fiamme erano vere: il malcapitato stuntman, Ronnie Rondell, indossava una tuta ignifuga sotto l’abito, ma durante gli scatti il vento soffiava nella direzione sbagliata e le fiamme gli bruciarono i baffi. Alla fine i due uomini si strinsero la mano scambiandosi di posto, per avere il vento a favore. Lui senza baffi. Che poi anche la copertina in sé fu oggetto di mistero: le prime copie dell’album furono distribuite avvolte in una pellicola nera, così che l’artwork rimanesse nascosto. Era un modo per rendere visibile il tema dell’assenza: bisognava scartare il disco per arrivare all’immagine. Qui genialità, non follia.

Ma genialità e follia si sono spesso mescolate nella carriera dei Pink Floyd, e Wish You Were Here è solo una tra le massime espressioni di questo mix che ha contraddistinto la carriera della band inglese. Cosa ci è rimasto di quel disco? Una lezione difficile da comprendere, a cinquant’anni di distanza, resta ancora sfuggente. Per ascoltare Wish You Were Here serve attenzione, ma forse è vero il contrario: per goderlo davvero bisogna lasciarsi andare. Come nelle sue note, tra follia e genialità, l’unico modo per capirlo è abbandonarsi al suo flusso, senza chiedergli nulla se non di brillare ancora, come un diamante pazzo. Buon compleanno.