“Mi sento condannato all’eccesso. Ma non ne soffro, né mi dà dispiacere. È semmai la mia natura”. Viene da credergli, se non altro perché a parlare è Pupo, cioè Enzo Ghinazzi, fresco settantenne – è reduce da un compleanno da 1500 invitati, “eccessivo come me, ma pieno d’amore” – che di anni, dice, ne ha vissuti almeno il doppio. O almeno il percepito è questo: dall’enorme successo di fine anni Settanta con le varie Su di noi, Gelato al cioccolato e Sarà perché ti amo (dei Ricchi e Poveri, ma di cui è autore), fino al crollo degli Ottanta e alla rinascita, più o meno. “Ho tre grandi passioni”, racconta, e come almeno un paio si sa lo stavano per rovinare. “Le donne, il gioco e la musica. Le prime due sono in pausa, e ne soffro. La terza no”. Così eccolo con un nuovo album, L’equilibrista, e un tour mondiale, perché “le mie canzone le ascoltano, davvero, in tutto il mondo”.
Come sta alla sua età?
“Non sono mai stato così vivo, in tutti i sensi: emotivamente, sessualmente, artisticamente; sono un uomo che ama gli stimoli”.
Per dirla alla Vasco Rossi, si sente un “supervissuto”?
“Ne ho passate tantissime, con momenti davvero tragici, che non auguro a nessuno. Non volevo il successo, si figuri, non l’ho mai cercato: ero un ragazzo di paese, un piccolo mitomane che – vuoi per farsi notare, vuoi per autodifesa – voleva stare sempre al centro dell’attenzione, giocavo a carte tutto il giorno e la musica, oltre che una passione, serviva a farmi notare dalle ragazze. Poi un mio amico, che è ancora qui al mio fianco, mi costrinse a fare un provino a Milano. Da lì partì tutto”.
Parentesi: come mai andò bene?
“E che ne so? Così come non so perché, nel 1982, gli stessi discografici che mi avevano lanciato – con questo nome d’arte, Pupo, scelto da loro e con la data di scadenza in bella mostra – mi dissero che ero ‘finito’. Forse avevo perso il tocco, forse era passato la moda. Ma fu un dramma: avevo altri quattro anni di contratto e, per liberarmi, dovevo pagare una penale enorme. Entrai in crisi”.
Come ne uscì?
“Trovando il coraggio, facendo la voce grossa, che spesso, con i violenti, serve. Alla fine pagai meno e mi liberai, ma furono anni tremendi. Sarei potuto finire male, ma ho imparato a gestire le emozioni, quelle che potevano uccidermi. Non è una storia per tutti, la mia. Ma è stato nei momenti così duri che ho capito di avere carattere: il successo va e viene per caso, la testa serve per tenerlo e tenersi sotto controllo”.
A proposito, con gli eccessi come va?
“Mi sono accettato per come sono, anche se non è stato semplice. Ho due moglie, come tutti sanno, e l’ho accettato io per primo. Non gioco più e spero che quella dipendenza non torni”.
Com’è la sua natura?
“Sopra le righe. Ma non è una risposta a niente: sono nato così”.
E come musicista, com’è?
“Non semplicissimo: ho grande stima di gruppi come i Pooh, che sanno cantare per anni la stessa canzone; io invece devo cambiare, a un certo punto, e non è facile per il pubblico seguirmi. Per esempio, ho fatto tante canzoni da cantautore impegnato”.
Si sente sottovalutato?
“Dalla critica sì, senz’altro. Nessuno ha mai preso in considerazione davvero quei pezzi. Consiglio il mio disco Change generation (1985), per esempio. Ma li capisco, il loro mestiere è sottovalutare”.
E dal pubblico?
“Mah, no, nel senso che ho avuto tantissimo. Nessuno è profeta a casa sua, questo posso dirlo, e di certo all’estero vengo trattato come una leggenda del pop più che in Italia. Ma perché fa parte della nostra natura, io stesso, qui, tendo a non idolatrare mai nessuno, pur restando un appassionati di musica. Credo sia proprio una cosa italiana. Come diceva la canzone: “Gli altri siamo noi”, sono io. Sa che non vado ai concerti?”.
Ah no?
“Ma di nessuno, eh. Mai andato, solo di Giorgio Gaber, che si esibiva da solo. Il resto, ormai, mi sembra un enorme show con raggi laser e quant’altro in cui non mi ritrovo. I miei live, permetta, sono meglio, più avanti, più genuini. Solo che non li faccio quasi più in Italia, se non nei teatri, gli unici posti dove mi riservano un trattamento all’altezza. Per il resto, ho rinunciato a milioni di euro, negli ultimi anni, pur di non esibirmi in certi contesti. All’estero, la differenza si vede: in aeroporto mi vengono a prendere con la limousine, eccetera”.
Qualcuno dei nuovi le piace?
“Achille Lauro, mi pare un bel talento. Poi non so se le sue canzoni resteranno, per esempio, come sono rimaste le mie, ma anche perché è cambiato il mondo. E io non sono un nostalgico eh, non ce l’ho con i giovani, anzi. Capisco che si deve andare avanti. È che non il mio. E penso, nella musica, di non dover imparare da nessuno”.
Cosa sogna, oggi, Pupo?
“Di restare dove sono: a settant’anni ho trovato quello che il mio amico Franco Battiato chiamava il centro di gravità permanente. Sono un equilibrista, ma senza una rete di supporto”.
Non le fa paura invecchiare?
“Non mi fa paura niente, neanche la morte. Credo di essere destinato a spegnermi lentamente, come mia madre: ha 92 anni e le sono legatissimo, le ho dedicato un pezzo – I colori della tua mente, non riesco più a cantarla per quanto mi emoziona – che racconta di come l’Alzheimer l’abbia colpita. Ora vive in una RSA, sta bene, ma nel suo mondo. Al mio compleanno, anche se per una mezz’ora, sono riuscito a farla venire. È scritto: finirò così”.
Si dice che convenga lasciare il tavolo da poker da vincitori. Lei, da ex giocatore accanito, che ne pensa?
“Che resterò a giocare fino alla fine. Il vero giocatore, come me, non gioca per il gusto di vincere, ma per quello di scommettere, di azzardare. Io mi sono reso conto che, alla fine, ho scommesso su tutto, ma in particolare sulla mia vita. È stata dura, ma rifarei tutto”.