di
Allegra Ferrante

Una giornata con Yasmine, Nadia e Fatima alla stazione di Milano tra corso Como e piazza Gae Aulenti. «Qui succede di tutto: risse, ragazze ubriache fradicie, rapine». «Vivo a modo mio, anche se la fine si avvicina»

Ciglia foltissime, finte. Unghie glitterate, metà dorate e metà lilla. Brillantini colorati sui denti. Nella borsa finta-Vuitton, una tinta per labbra opaca (lucida è per le «fighette del centro»), qualche stuzzicadenti, uno spray al peperoncino con percentuale di capsaicina oltre la soglia (con questa concentrazione, è fuori legge). Una di loro, un coltellino a lama
fissa
. Ogni pomeriggio si incontrano nello stesso posto: sotto il maxischermo super luminoso della stazione Garibaldi di Milano. Per questo le chiamano garibaldine. Un bacio sulla guancia all’amica del cuore, due alla rivale in amore. «Zin (bella in arabo, ndr), quella bitch ci guarda male. Andiamocene o le spacco la faccia».

Sono adolescenti italiane, o maghrebine di seconda generazione. Su TikTok usano l’hashtag maranzine, ma se glielo chiedi, non lo rivendicano. Si vestono di bianco o nero, tute aderentissime, ombelico in vista, Nike Tn lucidate. Stile condiviso con i compagni, i maranza. Eppure, se ne distaccano. O ci provano -invano- per poi condividerne ogni sorta di pratica, usi e abusi compresi. In questa relazione disfunzionale tentano di rintracciare un illusorio senso di valore. «Solo lui mi potrà amare». Un circolo vizioso che le definisce in un ruolo subalterno: la donna di. 



















































Asia, 16 anni, racconta: «Qui succede di tutto. Risse, ragazze ubriache fradicie, rapine. Io mi voglio tenere fuori dai problemi. A Garibaldi ho deciso di non uscirci più». Però sta qui anche lei, in attesa che il suo ragazzo venga rilasciato dall’Istituto penale minorile Beccaria di Milano. Passano il tempo a fumare sui muretti della stazione, vanno in giro tra Corso Como e piazza Gae Aulenti.

Trascorrere qualche pomeriggio con Yasmine, Nadia e Fatima permette di raccontare chi sono, oltre l’atteggiamento da maranzine che sfoggiano. «Vogliono che le si noti, ma si percepiscono brutte, distanti dal modello della ragazzina della Milano bene, da quell’estetica raffinata, economicamente inaccessibile», precisa Domenica Belrosso, ex direttrice dell’IPM femminile di Pontremoli. In questa non-logica, diventare maranza, anzi, maranzina, è l’unica salvezza.

Yasmine conosce Orwell, ma preferisce García Márquez. Ha 15 anni, metà tunisina, metà marocchina; va bene a scuola, liceo delle scienze umane di Legnano. Indossa una tuta Lacoste, ha un chakra dipinto con l’eye-liner sullo zigomo sinistro. Figlia più piccola di una famiglia numerosa, un complicato percorso migratorio. Sua madre fa la cuoca di giorno e
la badante di notte. Padre muratore. «Esce di casa presto, non lo vedo mai». Il fratello più grande, 26 anni, elettricista, lavora col padre. «Io e i miei fratelli più piccoli siamo maranza. Col cazzo che ci infiliamo in questa vita di merda!». Maranza è la rottura di un’aspettativa sociale e familiare. Scelta di un’identità forte, che si impone, che ha già dei codici: per allontanarsi rabbiosamente dalla vita dei propri genitori. Nichilismo (molto appariscente) in alternativa a restare invisibili. «Non voglio fare la lavapiatti/ma voglio andare in giro in Bugatti», suona la cassa JBL che le ragazze ascoltano nel parcheggio di Piazza Freud.

Più che nella famiglia, confidano nel gruppo. Anime confuse, spezzate, accomunate da dolori silenziosi che, aggregandosi, sperano di trovare un senso di appartenenza. «Per quanto sgangherato, è un gruppo di pari in cui ci si riconosce», sostiene Elena Carnevale, educatrice della comunità Madre Amabile di Vigevano. «Quando escono, è un po’ come se giocassero al ribasso, perché puntare in alto è faticoso. Nel confronto con il mondo,
vengono richieste delle abilità che alcune volte neanche loro sanno di possedere». Tante infelicità messe insieme si trasformano in una piccola felicità.

«Vodka alla fragola o tequila? Dobbiamo festeggiare la nostra khty (sorella in arabo, ndr). Oggi esce dalla comunità». Nadia ha 14 anni, italiana. Le maniche della felpa le coprono anche le dita. Nasconde le cicatrici dei tagli che si è inflitta. Non vuole che le amiche la tocchino. Ha trascorso gli ultimi sei mesi in comunità, dopo una denuncia per aggressione.
É stata una ragazzina abbandonata. Quando nasce, il padre se ne va. La madre tossicodipendente entra ed esce di galera. A sette anni le trovano tracce di cocaina nel sangue: era nella torta preparata da sua mamma. Oggi dice: «Finalmente in comunità ho sperimentato per la prima volta una camera da letto tutta mia. Potevo truccarmi, scrivere le mie strofe (musicali, ndr), dormire».  Ha un lungo tatuaggio sul polpaccio, due versi della sua trapper preferita, Lorenzza: «Mi sento come chi non sa la sua età/ Sono proprio una bambina cresciuta senza papà». Sogna l’università. Cosa vuoi studiare? «Non lo so». Le garibaldine d’origine non araba sono figlie del precariato italiano, di famiglie dolenti o disastrate, hanno un alfabeto emotivo zoppicante. «Esibiscono una libertà sessuale che svela un’inconsapevolezza della propria corporeità. Alternano la rivendicazione di un’autonomia assertiva e trasgressiva (“Non mi puoi tenere in galera, comando nel quartiere”), a gesti di regressione all’infanzia, come dormire con l’orsacchiotto», racconta Belrosso.

«Non so di preciso quanti anni abbia mia nonna, ma questo taglio me lo ha fatto lei. Se chiedo aiuto, perde la casa popolare che le spetta», racconta Fatima. Qualche mese di detenzione in carcere, ma non rivela il motivo. È aggressiva, sembra in guerra, come se parlasse un codice di famiglia. La lingua dell’escluso, dello straniero. Vince chi è più forte, chi fa più brutto dell’altro. Devi portare a casa la pelle. «Mad, sad, bad (pazza, triste, cattiva, ndr): la triade da stereotipo delle ragazze antisociali, chiamiamole così», riflette lo psicoterapeuta Mauro Di Lorenzo. Concetto deviato di reputazione: «se hai cercato di rubarmi il tipo», si può far di tutto, anche sfregiare. Fatima scrive sul suo profilo Instagram: «Je vis à ma manière, si la fin est proche». Vivo a modo mio, anche se la fine si avvicina.


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14 settembre 2025