Conosciuto come uno dei grandi nomi del Secolo d’Oro spagnolo, fu in realtà, tra ‘500 e ‘600, molto di più: collaboratore fidato del Viceré Osuna, studioso assetato di sapere e abile tiratore di spada, ingegno controverso e malinconico filosofo, estro da artista e trame da fantasma. Il suo nome rimase legato ad una delle cospirazioni più ardite che la storia moderna ricordi. Una missione impossibile nata in Sicilia e conclusasi a Venezia. Che gli valse, nel bene e nel male, la consacrazione a leggenda

Ad osservarlo bene, con quel volto incassato dietro gli occhialini dalle lenti oscurate, i capelli vaporosi per non dire mai ordine e un baffetto da scienziato dei fumetti, non gli si darebbe nemmeno la proverbiale lira. Eppure tutti, tra il 1580 e il 1645, ne riconoscevano la fama. Capita, d’altra parte, quando il tuo nome figura tra quelli più prestigiosi del Secolo d’oro spagnolo. Quando la tua abilità da verseggiatore è pari soltanto alla tua destrezza da spadaccino. Ammesso che le due anime non siano del tutto sovrapponibili. Perché Francisco de Quevedo Villegas è il classico intelletto sovversivo che si rifiuta di sottostare a qualsivoglia classificazione. Libertino, irriverente, ma al tempo stesso capace di guizzi lirici e malinconici di sbalorditiva profondità. Scontroso, intrattabile, ineffabile approfittatore, tuttavia, quando necessario, emblema di lealtà e di fedeltà. Sembra quasi uno di quei miti frammentati, dispersi tra pagine e pergamene andate perdute, la sua vita. Un’epopea di aneddoti e surreali peripezie, sceneggiati da un destino troppe volte beffardo. Tremendamente reale, invece. Sepolto forse da un’aura di leggenda che lo ha reso una sorta di Cagliostro ante-litteram. O da una damnatio memoriae inflittagli dai tanti, troppi avversari maturati durante il suo tortuoso cammino. Come Gòngora, il poeta di corte rivale al quale rivolgeva le sue più aspre tenzoni. O l’odiato duca di Olivares, causa per lui di infinite disgrazie. Ma capace, quello stesso destino, quella stessa memoria, di riaffiorare qua e là tra racconti folkloristici e monografie storiche. Nei luoghi che lo hanno ospitato, cullato, o addirittura condannato. Luoghi tra i quali rientra anche la nostra Sicilia, che per Quevedo fu casa e trampolino di lancio. Apogeo e rimpianto. Qui, nei confini della Trinacria, maturò infatti il sodalizio umano e professionale con il duca di Osuna, destinato a diventare Viceré dell’isola. Qui prese forma il progetto che lo consegnò – nel bene e nel male – definitivamente alla leggenda. Non più soltanto come poeta virtuoso e diplomatico poco ortodosso. Bensì come spia, cavaliere errante e reietto. Prigioniero in cerca di riscatto.

Quando Pedro Téllez-Girón, III duca di Osuna, venne nominato Viceré di Sicilia nel 1611, Quevedo, che già in Spagna aveva ammaliato il suo nobile signore con l’estro del proprio carisma, giunse nell’isola come suo più fidato collaboratore per diretto volere del re Filippo III. Sognavano, quei due rampanti e smaliziati politicanti, di incidere il loro nome nel libro delle imprese più sensazionali. Di espandere la loro influenza bel al di là della sede che gli era stata assegnata. Giorno e notte, coltivando il suo già prodigioso talento, il poeta iberico affinava le sue abilità linguistiche – Paolo Antonio di Tarsia, uomo di chiesa pugliese che dopo la morte raccolse i fatti e le indiscrezioni più significativi in una singolare biografia, racconta che fossero almeno sette le lingue parlate fluentemente dallo scrittore, compreso il latino, l’arabo, l’ebraico e l’italiano – e tesseva nell’ombra trame destinate a scuotere l’Europa. Nel giro di pochi anni, la premiata ditta ottenne anche il controllo su Napoli. L’ultimo passo prima di puntare alla suprema ambizione: quella di scippare a Venezia il dominio dell’Adriatico e prendere il controllo delle rotte commerciali dirette verso Oriente. Nel 1618, quella che gli venne affidata – e che passò alla storia come la congiura di Bedmar, dal nome del diplomatico spagnolo che favorì il transito dei suoi connazionali nel territorio della Serenissima – fu una vera missione impossibile: catturare il sorvegliatissimo Doge e trasferirlo come ostaggio proprio a Napoli. Nemmeno l’inventiva di Quevedo fu sufficiente per portare a compimento il piano. A pochi giorni dalla sua messa in atto, il manipolo di uomini guidato dal poeta fu intercettato dalle autorità veneziane. Molti trovarono la morte. Ci volle tutto l’ingegno di cui era dotato per sfuggire a quella folle rincorsa: accartocciato in un mantello dalle tinte scure, le stesse dei vicoli che dovette attraversare per non dare nell’occhio, scivolando tra un canale e l’altro, dovette sfoggiare la sua parlata veneziana – appresa proprio per l’occasione – per depistare le indagini e garantirsi un corridoio di fuga. Una mirabolante uscita di scena, degna del Lupin di Maurice Leblanc o del Diabolik delle sorelle Giussani. Che, tuttavia, non gli valse l’impunità. I sospetti ricaddero subito su di lui e sul duca di Osuna. Filippo III si ritrovò costretto a deporli entrambi. Fu la fine di un sogno. O forse di una follia.

La morte del sovrano e l’ascesa al trono di Filippo IV, e del suo fidato primo ministro Olivares, fecero il resto. Incarcerato nel 1621, Osuna morì in cella tre anni dopo. Quevedo, inizialmente esiliato, venne riammesso a corte. Tentò perfino di sposarsi, contravvenendo alla sua avversione per le relazioni stabili, nel tentativo di garantirsi una dote. Ma la sorte, che tanto aveva alimentato la scintilla della sua eccentricità, si era ormai voltata dall’altra parte. Un suo appunto apertamente polemico contro Olivares – anche se gli storici sostengono che il reale motivo fu il suo tentativo di cospirare con i francesi per rimuovere la governance spagnola che lo aveva relegato ad un ruolo marginale – gli valse una nuova incarcerazione. Da cui non si riprese sostanzialmente più. Morì nel 1645, consunto e impoverito.

E chissà se negli anni di prigionia si sia mai, figurativamente, voltato indietro ai giorni siciliani, quando il brulicare delle strade gli suggeriva brillanti satire e gli scorci naturali istanti di preziosa meditazione. A quando il tanto che possedeva nono sembrava mai abbastanza. A quando la condanna degli spiriti inquieti, che cercano senza sapere cosa o perché, lo aveva sovrastato. Di certo ebbe modo di tornare alle ampie sale della corte madrilena, o a quelle del Palazzo dei Viceré di Palermo. Quando Osuna, svestiti i panni del governatore e del congiurato, gli appariva come un intimo confessore. Proprio in occasione della sua morte Quevedo compose una delle sue più belle e celebri liriche: In morte del Duca di Osuna. Un vero concentrato di ricordi, nel bel mezzo del quale fa la sua comparsa maestosa la Sicilia: «Venir men poté la patria al grande Osuna, / ma non alla difesa le sue imprese; / morte e carcer la Spagna gli diede, / cui egli schiava aveva fatto la fortuna. / Rimpianser le proprie invidie, a una a una, / con la sua nazione le straniere. / Sua tomba son di Fiandra le campagne, / e il suo epitaffio la sanguigna Luna. / S’incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio, / Partenope e Trinacria al Mongibello; / il pianto militar crebbe a diluvio. / Di Marte avrà in ciel luogo migliore; / la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio / mormorano con lamento il lor dolore». Conclusione barocca, eterea, onirica se ce n’è una. Profondamente spagnola e siciliana. Conclusione di un uomo mai domo e mai sazio di conoscenza, mai sazio di sé. Immerso nel suo tempo e nelle persone che lo popolavano. Eterno disertore delle regole e delle ipocrisie. Ingannatore tradito dalla sua stessa scaltrezza.

(Immagine in copertina realizzata con OpenAI)