di
Francesco Verni
Il gruppo rivoluzionario del rock anni Sessanta sale sul palco e si scrolla di dosso gli anni che passano: quasi due ore di musica con un’intensità invidiabile
Che cosa è il rock? Una domanda la cui risposta meriterebbe migliaia di pagine, l’ascolto di centinaia di dischi e la lettura di decine e decine di libri. Oppure, per averla, basta essere stati al concerto di The Who, domenica, a Piazzola sul Brenta, nel Padovano.
Una data «strana». Fuori da un tour della band inglese, era stata annunciata allo stadio Euganeo di Padova ma poi spostata al Piazzola Live Festival (dove domenica erano circa 6.000 ad applaudire gli Who). Destino analogo anche per la data milanese che, martedì, sarà al Parco della Musica. Nel mezzo, l’annuncio del ritiro dalle scene della band inglese dopo un tour mondiale intitolato «The song is over» che, ufficialmente, partirà il 16 agosto dalla Florida. E adesso queste due date italiane che, a giudicare dal merch ufficiale con solo magliette delle date italiane (mentre fuori dai cancelli i venditori abusivi mettevano in vendita quelle del tour d’addio con prima data Padova), non farebbero parte di «The song is over – the farewell tour». Quisquilie, certo, ma il fatto lascia la speranza che le parole di Pete Townshend dal palco e il suo «ci rivedremo presto» abbiano un effettivo senso.
La formazione che rivoluzionò il rock
Torniamo al live, con la premessa incisa sul marmo che gli Who sono il simbolo più profondo, autentico e puro della rivoluzione del rock degli anni Sessanta. Dal 1964 la band inglese ha messo la propria firma su alcune pagine memorabili del rock, sia in studio che sul palco. Di quei quattro eroi, due se li è portati via il tempo; Keith Moon, considerato tra i più grandi batteristi di sempre, metà genio e metà follia, è morto per eccessi nel 1978, mentre l’impassibile metronomo del basso John Entwistle se ne è andato mentre era in tournée nel 2002. Rimangono però la mente, il chitarrista e compositore Pete Townshend, e il cantante e frontman, l’acrobata del microfono, Roger Daltrey. Entrambi, oggi, hanno superato gli ottant’anni. Accanto a loro, accanto al mito, nei «ruoli principali» del concerto padovano ci sono Jon Button al basso e la new entry Scott Devours alla batteria che ha sostituito ufficialmente Zak Starkey (il figlio di Ringo Starr) dopo uno sbrigativo licenziamento dopo trent’anni di onorato servizio.
Rock star attempate ma sul palco gli anni spariscono
Sono le 21 in punto quando la band entra sul palco. In quei trenta secondi nei quali Townshend e Daltrey guadagnano la propria posizione, l’impressione è che gli anni si siano arrampicati pesanti sulle spalle dei due. Poi, alla prima nota, il miracolo rock, i 61 anni di carriera sembrano scivolare via e i due «nonnini» si trasformano nelle rock star mitiche che il mondo ha saputo amare tributando loro oltre 100 milioni di dischi venduti. Il passaggio è talmente rapido da fare impressione.
«I Can’t Explain» è sorpresa autentica, Townshend, polo rossa su pantaloni blu sformati e berrettino da batterista jazz, regala il primo mulinello facendo impazzire al pubblico, muovendosi come un animale in gabbia con quei movimenti rapidi e minimali che mostrano il fuoco dentro e hanno caratterizzato da sempre le sue performance; Daltrey maglietta, tuta chiara e occhiali scuri, non sbaglia una nota (e non lo farà per tutto il concerto) padroneggiando il palco come un re ammira il suo impero.
La chimica tra Pete e Roger è pura magia, si trovano a memoria su ogni nota e ogni passaggio. Magari l’amicizia lunga più di sei decadi non la spiega fino in fondo, ma l’impressione è quella di vedere una coppia sposata da sempre che conosce ogni sguardo e desiderio del partner: parafrasando un dialogo tra la Pina e il ragionier Ugo Fantozzi, se non si amano, la stima è di sicuro quella vera.
La scaletta
«Substitute», pulsante e guizzante come un marlin nero nell’oceano, lascia spazio a «Who are you» con Roger che afferra una seconda elettrica per la stratificazione sonora di cui ha bisogno il pezzo. «Siamo contenti di essere tornati in Italia – dice Townshend – siamo davvero felici di aver preso un volo da Liverpool per essere qui in questo posto bellissimo».
«Love ain’t for keepin’», «Bargain» (con un acuto di Daltrey che sa di irrealtà), «The Seeker», ricondotta a territori blues, «Pinball wizard», hit di «Tommy» del 1969, poi una commovente «Behind blue eyes» con parti acustiche. A «Quadrophenia», rock opera capolavoro del 1973, come anticipato dal chitarrista e mente creativa del gruppo, sul palco dedicano cinque pezzi: «The real me», «5:15», «I’m one», «I’ve had enough», e
una strabiliante «Love, reign o’er me» che si trasforma in un’elaborata suite da lasciare i 6mila a bocca spalancata. Townshend è in uno stato di grazia tale che perfino nelle parti vocali (mai state il suo forte) è superbo.
La sorpresa di «Eminence Front», singolo del 1982, e poi tocca a «My Generation», il manifesto, con quel balbettio nel testo che raccontava lo spaesamento di un’intera generazione piantando il coltello nella storia con il verso «I hope I die before I get old». Speranza che, grazie agli dei del rock, non si è realizzata per i due dioscuri che regalano una versione senza limiti, tra le migliori mai ascoltate.
Quasi due ore di show (ma niente bis)
Daltrey, l’ex angelo biondo dagli occhi azzurri ora con i capelli bianchissimi, sente freddo e chiede un maglioncino. Richiesta che apre a un’involontaria gag in cui il rodie glielo infila rovescio: Roger, divertito, lo lancia a terra, e opta per una sciarpetta. Poco dopo, forse per qualche crampo o chissà per quale motivo, il cantante si sdraia a terra ma «See me, feel me» ma è già in agguato. Così, facendo finta che sia una cosa normale, che sia una cosa sostenibile e fattibile, la canta in ginocchio sul palco catturando ogni sfumatura di un brano vocalmente difficilissimo.
È passata più di un’ora e mezza. Il finale è all’orizzonte. Townshend annuncia che si chiuderà con evergreen, «You better you bet» apre a due elaboratissime e dionisiache «Baba O’Riley» e «Won’t get fooled again», pietre miliari del rock di «Who’s next». Saluti ma neppure un bis. Dare di più sarebbe umanamente impossibile: anche se i due hanno ingannato il tempo per quasi due ore, la fatica di un concerto estivo di questa intensità non si può non avvertire.
Concerto perfetto
Il fatto poi che gli Who abbiano scelto di saltare proprio la closer «The song is over», lascia davvero una speranza che quel «ci rivedremo presto» non sia solo un vuoto modo di dire.
I seimila torneranno a casa consapevoli di avere vissuto per una sera un concerto perfetto, di aver potuto toccare l’essenza più pura del rock ‘n’ roll che, come cantava il demiurgo Neil Young, «can never die». Né ora né mai.
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21 luglio 2025
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