Il conservatore americano era aperto al dialogo con i progressisti, anche se sapeva che «per quelli come noi non ci sono spazi sicuri». La sua condanna a morte: si batteva contro ideologia woke, politicamente corretto, aborto e follie del gender.Charlie Kirk era consapevole dei rischi che correva. E questo non significa che se la sia cercata, come suggerisce l’editorialista unico di sinistra nel tentativo di infangarne la memoria. Significa piuttosto che egli ha coraggiosamente affrontato il pericolo ed è morto per le sue idee. Idee che a volte esprimeva in modo molto diretto, talvolta ruvido, e che noi però dovremmo esaminare tenendo conto del contesto statunitense, del livello del dibattito da quelle parti e del tipo di retorica che va per la maggiore da una parte e dall’altra. Ovviamente dalle nostre parti ciò non avviene: si estrapolano parole prive di contesto, senza considerare dove e quando siano state pronunciate, o per rispondere a cosa. Il risultato è che le idee di Charlie Kirk in questi giorni sono state semplificate, mistificate e vilipese sui social e dai media. Illustri intellettuali come Stephen King hanno scritto ad esempio che Kirk si augurava la morte dei gay, e sono stati costretti a smentirsi pubblicamente. Ma se qualche affermazione estrema e falsa è stata rettificata, la gran parte delle bugie continua a circolare, e Charlie è ancora presentato come una sorta di suprematista bianco razzista e intollerante. In realtà, egli rientrava perfettamente nel sentiero culturale dei cristiani evangelici americani. Era un cristiano conservatore, prima cristiano e poi conservatore. Gran parte dei suoi libri, tra cui Time for a turning point e il bestseller The Maga doctrine, sono improntati a una robusta difesa del libero mercato e dello Stato minimo, secondo l’ordine di idee dei libertari americani e del Tea Party. Ma non sono certo gli appassionati sermoni a favore del capitalismo vecchio stile ad avergli guadagnato l’astio di quasi tutti gli attivisti progressisti d’America. Kirk era detestato dai suoi avversari soprattutto per ciò che diceva e scriveva riguardo alla cultura woke, alle pretese delle minoranze, all’aborto e alle battaglie gender. Era un «guerriero culturale» di destra, e questo gli è costato la vita. Sapeva di correre un pericolo e ne aveva ripetutamente parlato, sostenendo che non ci fossero luoghi sicuri per i conservatori, soprattutto nelle università americane. «Che ironia che tutte quelle lezioni sul disperato bisogno di spazi sicuri nei campus e sulla malvagità delle microaggressioni e dei discorsi offensivi provengano dalla sinistra», sosteneva. «È ironico perché i progressisti sono il più delle volte gli aggressori. I conservatori vengono umiliati, evitati, esclusi ed esiliati. Le micro e macro aggressioni contro i conservatori sono tollerate, se non applaudite. Ma non sono i conservatori a chiedere spazi sicuri e gli altri a proteggersi dall’essere feriti nei propri sentimenti. Rispetto ai progressisti, con quale frequenza i conservatori organizzano manifestazioni rumorose per impedire agli oratori progressisti di apparire nei campus? Con quale frequenza i conservatori molestano i progressisti nel tentativo di reclutare studenti per le loro cause? Con quale frequenza i conservatori affermano che la libertà di parola dei progressisti deve essere limitata perché è odiosa e offensiva? Con quale frequenza i conservatori marciano sugli uffici amministrativi per imporre la cancellazione degli oratori progressisti? Quanti conservatori chiedono spazi sicuri che sono essenzialmente camere di risonanza per… l’enfasi liberale? Quanto spesso? Non spesso, addirittura mai. I sedicenti progressisti sono quelli che stanno soffocando la libertà di parola e rendendo l’espressione di idee conservatrici un’impresa rischiosa, tradendo la cultura della libertà di parola che i liberal non molto tempo fa lodavano e difendevano aggressivamente. Quando si tratta di ambienti universitari ostili, è difficile trovarne uno che superi quelli che progressisti, liberali e clan di estrema sinistra stanno creando contro i conservatori». Rivolgendosi ai suoi sostenitori, aggiungeva: «Perché sono sempre gli attivisti di sinistra a lamentarsi, protestare, salire sui palchi e azionare gli allarmi antincendio, mentre noi conservatori restiamo in silenzio quando sentiamo cose con cui non siamo d’accordo?».Per lui, la libertà di parola era un valore assoluto. E detestava che fosse minacciata. Difenderla, spiegava, «non è un compito facile. I nostri Padri Fondatori lo sapevano bene mentre lottavano per trovare un modo migliore di governare rispetto, da un lato, alle monarchie, alle dittature e alle oligarchie europee. O, dall’altro, all’anarchia del sanguinoso Regno del Terrore che attanagliò la Francia dopo il fallimento così misero del suo esperimento con la democrazia. Trovare un equilibrio tra autoritarismo e anarchia è davvero difficile. Quindi, come può questa idea non essere in pericolo quando ai futuri leader americani viene insegnato che il comfort emotivo e fisico è più importante di un dibattito rigoroso, che evitare offese è più importante che proteggere la libertà di espressione, che la libertà di parola può essere messa a tacere perché potrebbe ferire i sentimenti di qualcuno?».A proposito delle minoranze combattive in cerca di risarcimento sociale sfoderava una battuta: «Chiunque venga dichiarato la vittima più grande può diventare il più grande bullo». E se la prendeva con i censori progressisti: «Un tempo i liberali erano convinti difensori della libertà di parola. Oggi, i progressisti dei campus hanno trasformato quell’onorevole eredità capovolgendola, arrogandosi il diritto di sopprimere la libertà di parola, ingannandosi credendo di proteggerla. Sotto le mentite spoglie dell’apprendimento si manifestano opinioni, giudizi o pura propaganda. È incredibile cosa passi per erudizione nelle aule universitarie e persino delle scuole superiori oggigiorno». Per contrastare questo stato di cose aveva fondato nel 2012, giovanissimo, la sua organizzazione Turning Point. «Abbiamo combattuto instancabilmente contro la macchina ben oliata del Team Left e li abbiamo affrontati aggressivamente in ogni occasione» rivendicava. «Li combattiamo con le loro tattiche e li combattiamo con nuove tattiche che non hanno mai visto prima. Principalmente quello che stiamo cercando di fare è prendere le distanze dalle risposte e dai contrattacchi comunemente associati al Team Right e colpire in modo preventivo e duro. […] Una delle armi più efficaci, se non la più efficace, che l’altra parte abbia schierato è l’uso e il controllo del linguaggio e della parola. Nella storia della guerra, una delle invenzioni più rivoluzionarie è stata quella della balestra. Sebbene sia associata all’Europa medievale, in realtà fu inventata nell’antica Cina, forse già nel 2000 a.C. I cinesi erano così certi del suo grande potere che fecero di tutto per tenerla lontana dai loro nemici, e alcune prove suggeriscono che abbiano persino preso in considerazione il disarmo unilaterale. Sapevano che aveva incredibili capacità distruttive. Il controllo del linguaggio e il politicamente corretto sono diventati la balestra moderna del Team Left, che sta brandendo le sue armi senza coscienza».Già, il politicamente corretto e la cultura woke erano le sue bestie nere. A combatterle dedicava la gran parte dei suoi interventi pubblici. «Voglio definire meglio il fenomeno che chiamiamo politicamente corretto», scriveva. «Il termine è diventato così ampiamente utilizzato che ora è quasi impossibile trascorrere un’intera giornata, a meno che non si sia a casa malati con la tv spenta e lo smartphone in modalità aereo, senza sentirlo usare. Tutti sanno che cosa significhi: che ci sono solo poche cose che si possano dire o fare senza che vengano considerate inappropriate. Ma cosa significa veramente e chi le considera inappropriate? A ben vedere, il politicamente corretto non è altro che autocensura. Costringe le persone a smettere volontariamente di comportarsi o parlare in un certo modo. Il motore di questo processo sono due emozioni di base: il senso di colpa e la paura. Il politicamente corretto induce le persone ad autocensurarsi perché si sentono in colpa per ciò che stanno per dire o fare e hanno paura di perdere qualcosa se lo dicono o lo fanno. Le emozioni di colpa e paura sono motori di comportamento così potenti che le persone si fermano senza nemmeno porsi la domanda: “Chi sto realmente offendendo?”. Quasi senza eccezioni, la risposta alla domanda è che non stai offendendo un numero significativo di persone apparentemente protette dal discorso censurato. Quello che stai realmente facendo è respingere un piccolo gruppo collettivista che cerca una sorta di privilegio o protezione e non vuole una discussione onesta e aperta sulla questione. Non importa quale sia l’argomento, le persone determinate a sostituire le decisioni collettive alla libertà individuale usano la balestra del politicamente corretto per stabilire i termini accettabili del discorso. Lo fanno in modo che persone come me appaiano indifferenti, insensibili e decisamente malvagie. […] Se discutiamo di controlli ragionevoli sull’immigrazione, siamo xenofobi; se abbiamo successo finanziario siamo “l’uno per cento”; se suggeriamo che le persone debbano pagare per le proprie scelte discrezionali in materia di controllo delle nascite, stiamo conducendo una “guerra alle donne”. È diventato molto scomodo e in alcuni casi pericoloso per le carriere accademiche, aziendali o pubbliche usare un linguaggio diretto per discutere questioni dirette. Il politicamente corretto è un’arma che induce le persone impegnate che sanno come comportarsi ad arrendersi volontariamente. È peggio dell’essere ipnotizzati, perché non puoi ordinare a una persona sotto ipnosi di fare qualcosa di dannoso per sé stessa. In tutta l’America, nei campus e negli uffici, il politicamente corretto sta spingendo i cittadini amanti della libertà a togliersi i vestiti, comportarsi come polli e saltare dalle finestre del dodicesimo piano».Libertà di parola, di pensiero, di espressione, sempre e ovunque. Se è vero che Kirk talvolta risultava urticante, è vero anche che era sempre disposto a dibattere, ad ascoltare gli altri, ad accettare gli attacchi compresi quelli più spietati. Eppure era anche capace di grande empatia. Basti guardare il video di un dialogo con uno studente che si definisce transgender e dichiara di essere intenzionato a cambiare sesso. Charlie ascolta con attenzione e risponde con estrema grazia, con comprensione e gentilezza. Invita il ragazzo a «fare molta attenzione prima di introdurre farmaci nel suo corpo», gli chiede di «aspettare una diagnosi» e di riflettere a lungo. Non giudica, non offende: invita. Certo, nei riguardi degli attivisti Charlie era implacabile, e fu tra coloro che fecero pressione su Donald Trump perché prendesse provvedimenti in difesa dei minori: «Trump ha promesso di firmare una legge che vieta le mutilazioni sessuali sui minori in tutti i 50 Stati», scrisse. «Dovrebbe farsi avanti e organizzare un evento in cui i bambini che hanno abbandonato la strada della conversione raccontino le loro tragiche storie. Passare all’attacco, chiudere le cliniche e proteggere i bambini». Anche quando il presidente decise di ascoltarlo, Charlie non abbassò la guardia: «L’ordine esecutivo per la protezione dei bambini dalle mutilazioni chimiche e chirurgiche», disse, «rappresenta un’inversione di tendenza e una denuncia completa e assoluta del contagio sociale infantile che ha distrutto innumerevoli famiglie e confuso e brutalizzato bambini, lasciando migliaia di persone permanentemente sterili e massacrate» In altre occasioni se la prese con il «culto transgender della sterilizzazione e della mutilazione di massa» e invocò processi in stile Norimberga per gli attivisti che spingono i minori a cambiare sesso. Ma non mancava mai di ripetere: «La mia preghiera per le persone che credono di essere trans è che smettano di fare la guerra al loro corpo e imparino invece ad amare il corpo che Dio ha dato loro». È probabile che proprio la battaglia anti trans abbia innescato l’ira e la follia del suo assassino. Chi ora insulta la memoria di Charlie accusandolo di aver fomentato divisione, dovrebbe ricordare che, negli Usa e altrove, le stesse idee sono condivise a destra e a sinistra, e persino da non pochi scienziati. Charlie, in ogni caso, era disponibile a discutere le sue affermazioni con chiunque, a metterle in dubbio, a spaccare il capello in quattro. A rifiutare la discussione, il più delle volte, erano i suoi avversari. Arroganti come quelli che oggi pretendono di demolire il suo pensiero senza nemmeno conoscerlo.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato – ha osservato – chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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