Sempre peggio. Il mondo social, che tecnici e strateghi subiscono servilmente nella convinzione sia il mondo intero, sta riuscendo nell’impresa ritenuta impossibile: battere e abbattere Pogacar. Torno a dire: non mi piace, proprio neanche un po’, il fenomeno che rinuncia a essere se stesso, che soffoca e misura i suoi strepitosi doni di natura, per piegarsi alle logiche conformiste e piccine del senso comune, del perbenismo piccolo borghese, ma sì, tutto quel ciarpame per cui il campione non deve essere egoista, non deve essere prepotente, non deve essere esagerato. Così urlano i social, così bisogna fare.
Per me, il campione deve semplicemente essere quello che è, sempre e comunque. E se questo significa battere sempre e comunque gli avversari, lo considero come una meraviglia concessa ogni tanto dalla storia per rompere la routine e la mediocrità del normale.
Così sembrava Teddy fino a quest’anno, temo non sia più così. Vedo il suo abbagliante profilo lentamente sbiadirsi, attenuarsi, snaturarsi. L’avevo presa male nell’ultima settimana del Tour, avevo faticato a riconoscerlo e ad accettarlo (ma quale stanco, arrivati in cima gli bastava uno scatto per guadagnare altri secondi, questa non è cosa per un bollito). Piuttosto, resto convinto che gli abbiano consigliato (o magari l’abbia deciso da solo) di non provocare troppo, di non gettare benzina sul fuoco del dissenso (e dello sputo) montante in Francia, tirando un po’ i freni e lasciando il centro della scena agli altri. E fine del Teddy show, spettacolo unico dell’era moderna.
Questa poi della vittoria di Montreal lasciata a McNulty mi pare la prova più schiacciante del processo di svuotamento e depotenziamento di una leggenda irripetibile: Pogacar spacca di nuovo tutto, poi alla fine si ferma ad aspettare il compagno per quella che la retorica definisce parata finale, ma che io in tutti questi casi considero sempre messinscena patetica. Mai nella vita, al posto di McNulty, avrei accettato un gesto del genere: cosa me ne faccio dell’obolo di un fuoriclasse, davvero penso di poter raccontare ai nipoti che un giorno ho vinto a Montreal, omettendo che in realtà ho vinto per misericordiosa concessione del reale vincitore?
Può davvero darsi che la storia dello sport si senta nobilitata da questi gesti, ma resto convinto che la storia dello sport resti sempre più nobilitata quando tutti danno tutto, fino all’ultima goccia, col più forte che vince alla fine di una gara dura, leale, spassionata. Regalare una corsa è contronatura, per chi lo sport lo considera il massimo dell’agonismo sano. E se proprio devo dire, regalare non ha niente di poetico, perchè di fatto manca di rispetto ai tifosi e agli organizzatori, oltre che agli avversari umiliati al sommo grado.
Mi racconteranno che non capisco niente dello sport romantico e del campione generoso. Ma lo confermo: proprio non capisco niente. Questo Pogacar che non fa più il cannibale e distribuisce regalini a destra e a sinistra lo lascio ai benpensanti e alla demagogia. Può davvero darsi che alla fine ne esca più simpatico, o meno antipatico. Ma ho seri dubbi. Intanto, nel trionfi in parata alla McNulty, io non vedo due vincitori, vedo piuttosto un solo, vero sconfitto: il senso autentico di una decorosa dignità.