In Italia il lavoro nero è una vera e propria piaga, in più settori. Ma la legge prevede uno specifico strumento di tutela per coloro che, a causa dell’inerzia o inadempienza del datore di lavoro, non vedono versati tutti i contributi a cui hanno diritto, rischiando di ricevere una pensione più bassa in futuro. È la rendita vitalizia, in gergo detto anche “riscatto“, che copre l’omissione contributiva nell’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (Ivs) su cui si sia già verificata la prescrizione e, quindi, l’impossibilità di versare i contributi nel rispetto delle scadenze di legge.

Sul tema del mancato pagamento mensile di queste somme, c’è una recente sentenza della Cassazione a sezioni unite, la n. 22802, che ha spiegato quali sono i confini della rendita vitalizia, come può essere richiesta, da chi ed entro quali termini. Vediamo insieme, in sintesi, la questione giudiziaria e la decisione della Corte, sottolineando le utili indicazioni generali che offre ad aziende e lavoratori.

Cosa ha stabilito la Cassazione

Con l’appena citata decisione, la Suprema Corte ha chiuso un lungo dibattito tra magistratura, giuristi e lo stesso istituto di previdenza, stabilendo che il diritto del dipendente a costituire presso Inps la rendita vitalizia (di cui all’art. 13 della legge 1338/1962):

  • è sottoposto a prescrizione ordinaria decennale e quindi viene meno trascorso questo lasso di tempo;
  • può essere fatto valere dalla data in cui il lavoratore viene a conoscenza del mancato versamento dei contributi da parte dell’azienda.

La novità sostanziale, offerta dalla sentenza in oggetto, va nella direzione della maggior tutela del lavoratore perché il termine non decorre più automaticamente dall’effettivo e preciso momento in cui si ha l’omissione contributiva, ma dal giorno in cui il dipendente scopre o si rende conto di aver lavorato in nero, per la mancata regolarizzazione da parte dell’azienda.

L’utilità della sentenza della Cassazione è l’aver superato la prassi di alcuni giudici, secondo cui il diritto alla rendita era imprescrittibile e poteva essere esercitato in ogni momento. L’Inps invece faceva valere la prescrizione decennale, ma con decorrenza dalla data di prescrizione dei contributi. In sostanza, la Corte ha indicato una soluzione intermedia.

Cos’è e come funziona la rendita vitalizia

Per capire appieno la portata della decisione della Corte, è opportuno fare una sintetica panoramica sul meccanismo della rendita vitalizia.

Rendita vitalizia del datore di lavoro

Per legge, il datore che non ha versato i contributi per l’assicurazione Ivs e che non possa più versarli per intervenuta scadenza dei termini (per legge 5 anni dal giorno in cui i singoli contributi dovevano essere versati), può chiedere all’Inps di costituire una rendita vitalizia in compensazione e rimedio al danno causato, con pagamento all’istituto della corrispondente somma a titolo di riserva matematica.

Potrà farlo entro 10 anni, ferme restando le leggi penali applicabili e esibendo a Inps documenti con data certa, dai quali emergano l’effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, come anche la misura della retribuzione erogata al lavoratore interessato.

Rendita vitalizia del dipendente

Non solo. Qualora non sia possibile avere dall’azienda datrice la costituzione della rendita, il dipendente potrà sostituirsi ad essa.

È la rendita a cui fa riferimento la Cassazione nella citata sentenza di chiarimento, che avrà un ammontare pari alla pensione che sarebbe spettata se i contributi fossero stati tempestivamente accreditati.

Attenzione però:

  • per legge il lavoratore può sostituirsi all’azienda a condizione che dia a Inps le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione a suo tempo versatagli;
  • soltanto quando non sarà più possibile per il datore provvedere alla costituzione della rendita, il diritto del lavoratore a sostituirsi comincerà a prescriversi;
  • il dipendente può attivarsi sia nel caso in cui presti ancora attività lavorativa, sia nel caso in cui abbia già conseguito la pensione – i contributi si riterranno comunque gravanti sul datore.

Resta comunque salvo il diritto del dipendente a chiedere il risarcimento del danno pensionistico, come indicato dall’art. 2116 del Codice Civile,  e, su questo specifico punto, si precisa che il termine prescrizionale è anch’esso decennale e scatta dal giorno nel quale il danno si manifesta, tipicamente con il rifiuto del versamento del trattamento previdenziale o il pagamento della mensilità in misura minore.

Niente scadenza se l’onere è a proprio carico

Nel caso il dipendente non si sia attivato nei termini visti sopra, la legge 203/2024 viene in suo soccorso con la modifica alle regole sulla rendita vitalizia di cui all’art. 13 della legge 1338/1962.

Infatti con la novità introdotta lo scorso anno è onere interamente a proprio carico: è possibile costituire la rendita vitalizia integrativa senza essere vincolati al rispetto di alcuna scadenza.

La regola si applica anche a seguito della recente sentenza della Suprema Corte e resta comunque fermo il suddetto onere della prova. Per ulteriori informazioni sul meccanismo in oggetto è di riferimento la circolare Inps n. 48 di quest’anno.

Concludendo, in tema di omissioni contributive dell’azienda, la sentenza 22802/2025 della Cassazione ha spiegato che il diritto del dipendente a costituire la rendita vitalizia prevista dalla legge, è sì soggetto a una prescrizione decennale, ma protegge e viene incontro al dipendente perché fa decorrere il relativo termine solo dalla data in cui il dipendente scopre la mancata regolarizzazione, controllando online il proprio estratto contributivo o al momento della domanda di pensione.