“Ho 39 anni, sono al termine della mia terza gravidanza. Non ho mai fatto un’ecografia, né un esame del sangue. Non so in che posizione sia il mio bambino, né ho mai ascoltato il suo battito cardiaco”. Così una donna racconta la sua gravidanza su Instagram, rivendicando con orgoglio una scelta radicale: nessun controllo medico, nessuna assistenza. Solo “fiducia nel proprio corpo”. È la narrazione del free birth, il parto libero e non medicalizzato, diventato una narrazione consolidata sui social. Il post si conclude con un invito a commentare per ricevere un “kit per il parto libero” a pagamento, ça va sans dire.
Che sul web si possa diventare esperti di qualunque cosa, dalla nutrizione alla psicologia, passando per l’immunologia, è cosa nota. Ma che sempre più donne scelgano di affidarsi a influencer, doule autodidatte, birth keeper (così si definiscono, ‘custodi della nascita’) per affrontare un evento complesso, delicatissimo e potenzialmente pericoloso come il parto, è un fenomeno che merita di essere indagato. Non si tratta di perdere peso, o migliorare la propria routine in dieci step, ma della vita di un neonato e della donna che lo porta in grembo. E infatti i casi di cronaca che raccontano gli esiti tragici di tali pratiche si stanno moltiplicando. La morte della neonata in una casa maternità a Roma, solo pochi giorni fa, potrebbe essere uno dei più recenti. Nell’estate appena trascorsa, l’arresto dell’ostetrica chiamata Bibi ha riportato l’attenzione su un mondo sommerso fatto di negligenze, pratiche rischiose e tragiche conseguenze. Nota sui social per l’approccio spavaldo con il quale invitava a limitare, se non ad evitare del tutto, visite e analisi in gravidanza, ignorando le linee guida di pediatri e ginecologi, è stata accusata di omicidio colposo (una neonata sarebbe morta a causa del suo operato). È arrivato in tribunale anche il caso di una donna ha perso il suo bambino appena nato dopo aver partorito completamente sola in una piscina gonfiabile affittata da una influencer su Instagram che predica il parto libero. Ancora, pochi giorni fa, la fondatrice della Free Birth Society, figura di riferimento internazionale di questo movimento anti-medicalizzazione, ha perso il proprio figlio. Eppure, anche di fronte alla morte, la retorica non vacilla. Anzi, si radicalizza.
Il parto ospedaliero viene descritto come una forma di oppressione. L’epidurale è vista come un tradimento del corpo, le complicazioni come una colpa personale. ‘Gli uteri sono stressati dall’adrenalina’, se hai un parto complicato è perché ‘non ti sei fidata del tuo istinto’: queste sono alcuni dei mantra che circolano nelle community del parto libero. Il dolore è empowerment, la sofferenza una necessaria purificazione, e il fallimento diventa sempre responsabilità della madre, o, al massimo, un avvenimento da accettare in quanto parte della vita. Non è mai colpa del metodo, anche quando si tratta di morti che si sarebbero potute prevenire con un’adeguata assistenza medica. La medicina, in questo discorso, è l’antagonista. L’ospedale un ambiente ostile, ‘controllato da Big Pharma e dal sistema ostetrico’ e abitato da ‘sconosciuti in camice’ (citazioni testuali) a cui non si dovrebbe affidare un momento tanto sacro. Le testimonianze di donne pentite di essersi affidate a queste guru ci sono, basta fare una rapida ricerca online per leggere resoconti agghiaccianti. Ma sono comunque molte le loro seguaci.
In questo filone rientrano varie gradazioni di approccio: ci sono le ostetriche anti-sistema, che magari sono formate adeguatamente ma hanno preso una deriva che contesta le linee guida e che spesso serve loro a diventare delle star di Instagram, come la sopra menzionata Bibi. Ci sono doula autoproclamate, che, nonostante non abbiano alcuna competenza medica, mostrando un mix tra sicumera e carisma danno indicazioni molto perentorie su come partorire ‘positivamente’. E ci sono le custodi della nascita, che hanno un approccio ancora più radicale: si auto-formano tramite personalissimi percorsi di studio o corsi che tengono all’interno della loro cerchia e invitano a partorire nei boschi, in riva all’oceano, o a casa propria se proprio non si è abbastanza wild mama, ma rigorosamente senza assistenza medica. Persino l’ostetrica, dal loro punto di vista, è una figura da guardare con sospetto, troppo compromessa con le logiche dell’ostetricia istituzionale. Con varie sfumature di pensiero e approccio, utilizzano un linguaggio che si rifà al mondo new age e invocano un ritorno alla naturalezza del parto.
Meno di un secolo fa, partorire significava rischiare la vita. È grazie alla medicina, agli esami, ai controlli e all’assistenza che oggi possiamo considerare la maternità un percorso sicuro. Eppure, molte donne si lasciano convincere da queste ‘guru’ che il parto assistito da personale competente sia una resa, un fallimento. Ma cosa è successo? Perché questo fenomeno sta dilagando?
Parto domiciliare e free birth non sono la stessa cosa: il parere dell’ostetrica
L’ostetrica Alessandra Bellasio fa un netto distinguo: parto domiciliare e free birth non sono la stessa cosa. “I dati ci dicono che il parto domiciliare, quando eseguito secondo i protocolli che lo regolamentano, non è più pericoloso del parto ospedaliero. Osservando i dati possiamo dire che non c’è un aumento di rischio quando la donna ha già avuto dei figli in precedenza, mentre nel caso del primo parto è documentato un aumento di rischio assoluto, ma comunque resta una pratica considerata sicura se svolta in condizioni specifiche (gravidanza e travaglio senza complicazioni) e strutturata con una rete organizzativa adeguata”. In Italia, come in tutti i Paesi dove è regolamentato, occorre attenersi ad una serie di requisiti per praticare il parto domiciliare in sicurezza. È una scelta che poche donne compiono: nei paesi ad alto reddito e in cui l’accesso al sistema sanitario è garantito, si parla di tassi medi del 2%, con picchi in paesi come l’Olanda dove arriva al 15% (un’eccezione nel panorama europeo, dovuta al fatto di essere una pratica integrata con il sistema sanitario), e paesi dove è preso scarsamente in considerazione come la Svezia (0,1%). Anche in Italia i dati indicano percentuali molto basse, intorno allo 0,1 – 0,2%.
Insomma, è un’opzione contemplabile, ma solo se sussistono condizioni specifiche. Ben altro è il free birth, o il parto assistito da professionisti che queste condizioni non le rispettano, anche se “è difficile dare una cornice a questi fenomeni perché non sono ben documentati”, commenta l’ostetrica. Il rifiuto del parto medicalizzato (ovvero coadiuvato da interventi esterni come l’epidurale per ridurre il dolore, l’uso dell’ossitocina per accelerare il travaglio, l’induzione, l’impiego della ventosa) nasce da una convinzione: ci stiamo allontanando troppo dalla nostra natura, ma il nostro corpo ‘sa’. “È vero che negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un incremento della medicalizzazione, ma in questo modo abbiamo anche potuto prevenire numerosi esiti avversi. Anche se non nego che laddove ci sia un eccesso di medicalizzazione si possa ottenere il risultato contrario”. Le supporter italiane del parto libero sostengono che nel nostro paese ci sia più medicalizzazione che in altri (è una linea di difesa molto quotata per quanto riguarda il caso di Bibi). Secondo Alessandra Bellasio non è assolutamente vero: “Ci sono linee guida internazionali, poi ogni paese ha i suoi diversi approcci: in Australia dove operava Bibi è vero che è il parto è leggermente meno medicalizzato, mentre per esempio negli Stati Uniti lo è altamente. Ma guardando ai dati direi di no, in Italia il tema dell’assistenza ostetrica non è assolutamente allarmante, anzi abbiamo un ottimo controllo”.
Nella sua esperienza riscontra maggiore diffidenza nell’operato medico e in particolare quello ostetrico e ginecologico? “Sì. Dal Covid in poi si è generata una paura dell’ospedale e una grande paura dell’isolamento, e non sorprende visto che in quel periodo c’è stato un declino importante dell’assistenza alle donne partorienti, che venivano lasciate da sole. E poi è innegabile che le risorse sempre meno disponibili a causa dei tagli alla sanità, i turni massacranti degli operatori, l’assenza di formazione obbligatoria su temi come la comunicazione empatica e rispettosa, e tutto ciò che riguarda la violenza ostetrica, hanno evidentemente peggiorato la qualità del servizio”.
“Le donne hanno paura, si sentono sole, la gravidanza rende vulnerabili, ed ecco che ‘cadono’ nella persona che sembra loro disponibile, perché promette, accoglie, e racconta con certezza granitica cosa succederà seguendo i suoi consigli”, conclude la dottoressa. Ci sono svariati motivi per scegliere un parto domiciliare: il desiderio di un ambiente rassicurante, la possibilità di essere circondata dai familiari. Di certo, non andrebbe scelto per timore della violenza ostetrica, sostiene Bellasio. “Le donne devono essere consapevoli, ma la risposta alla violenza ostetrica deve venire dai sanitari, che devono imparare a mettersi in discussione, devono riuscire a riconoscerla, ad intervenire, ad arginarla”.
Fanatismo che si nutre di dolore
Francesca Bubba ha lavorato per anni ad inchieste sulle guru della maternità. Lo fa tutt’ora, tramite pubblicazioni e sui suoi canali social. È stata una delle prime in Italia a lanciare l’allarme sull’operato dell’ostetrica Bibi, nonché a denunciare il fenomeno del free birth e la sua pericolosità. Le chiediamo se si è fatta un’idea su che tipo di donna cada nel tranello di questa narrazione. “Non è possibile tracciare un quadro psicologico che rappresenti tutte, perché si tratta di donne diverse tra loro per estrazione, età, cultura. L’elemento interessante è che queste donne non sono sprovvedute: leggono, si informano, ascoltano podcast, si confrontano in gruppi chiusi. Ma è una bolla autoreferenziale: cercano conferme, non contraddittorio”.
Anche secondo Bubba la violenza ostetrica gioca un ruolo decisivo nel magnetismo che queste figure esercitano. “Il rifiuto alla medicina ufficiale spesso non nasce dal nulla. È una reazione. Molte di queste donne sono state vittime di violenza ostetrica (o testimoni indirette). Alcune sono madri alla seconda o terza esperienza, decise a ‘riprendersi’ ciò che è stato tolto loro in precedenza”. Assenza di spiegazioni o possibilità di scelta, nessuna empatia in un momento delicato come quello del parto, interventi dolorosi praticati senza anestesia e senza il consenso, commenti degradanti: sono tante le donne che raccontano di aver vissuto in modo traumatico un’esperienza che invece speravano sarebbe stata la più bella della loro vita. Ecco che il parto in assenza di figure sanitarie diventa un atto di ribellione, e un rifugio, riflette l’autrice. “Ma è una trappola, perché l’ideologia del ‘corpo che sa’ non lascia spazio alla vulnerabilità, alla complessità, all’imprevisto. La medicina esiste proprio per far fronte a tutto ciò, ed è una conquista del nostro tempo”.
Ma al di là delle esperienze negative vissute, nelle parole di questi gruppi emerge spesso un rifiuto di natura ideologica. “Il trauma e l’ideologia si alimentano a vicenda”, sostiene Bubba. “La violenza ostetrica esiste, e finché sarà negata o minimizzata continuerà a generare fratture. Ma a quel dolore individuale si sovrappone un discorso più ampio: una sfiducia sistemica verso l’istituzione, verso la medicina, verso lo Stato. Il Covid ha accelerato questo processo, e in quel vuoto si sono infilate le guru del parto libero, promettendo una nuova narrazione. Più umana, più spirituale, ma priva di basi scientifiche e, come stiamo vedendo negli ultimi tempi, con frequenti esiti tragici”.
In questi gruppi le donne trovano una comunità, un senso, una missione, l’empatia. “Ma anche una narrazione di forza e supremazia della madre: non sei uno strumento, sei una dea”. E se le cose non vanno per il verso giusto? “La colpa ricade sulla madre. ‘Non ti sei fidata abbastanza’, ‘avevi paura’, ‘hai ceduto al sistema’. Sto osservando un tassello che hanno aggiunto alla loro narrazione proprio in virtù dell’aumento delle morti che questo fenomeno sta causando: le guru iniziano ad inculcare alle donne che l’idea che la morte sia ‘una possibilità che va accolta’. Altrimenti l’anima del bambino non troverà mai pace. Quale modo migliore per sfuggire ai rischi di eventuali indagini o denunce? Così le madri a cui capiterà saranno più propense ad ‘accogliere’ anziché reclamare giustizia”.
In effetti, anche di fronte a gravi complicazioni o tragedie, le appartenenti a queste comunità fanno quadrato, sembrano non contemplare nessuna autocritica: in un post Instagram su un canale dedicato al free birth, una donna scrive di aver partorito da sola, ma di essere andata in shock a causa di una emorragia post parto. La risposta di una ‘custode del parto’ è stata: “Non avevi inserito abbastanza clorofilla nella tua alimentazione”. A corredo delle notizie relative a tragedie sfiorate o avvenute a causa di queste pratiche, i messaggi in difesa di chi le promuove sono tantissimi. Una vera e propria forma di fanatismo, particolarmente evidente nei messaggi di odio che riceve Francesca Bubba a causa del suo lavoro. “Una forma di fondamentalismo dolce, fatto di cuori, toni concilianti, ma che difende un dogma: noi siamo nel giusto, tutti gli altri ci ingannano. Come nelle peggiori dinamiche settarie”.
Nel periodo in cui lavorava alle sue inchieste, l’autrice ha avuto occasione di parlare con alcune di queste figure, e di ascoltarle. Certe, racconta, si sono rifiutate di dialogare con lei, altre hanno risposto con lunghi monologhi e “Parole affascinanti, avvolgenti, musicali. Ma poco consistenti. Si definiscono custodi, facilitatrici, attivatrici di potere femminile, ma quando chiedi loro: ‘Cosa fai se una donna entra in emorragia?’, la risposta si fa vaga. ‘L’energia della madre guida il processo’, è il tenore delle risposte. Dietro c’è una profonda convinzione, ma anche un enorme senso di onnipotenza”. E, nella maggior parte dei casi una forma di business. “Corsi, percorsi, rituali spesso sono a pagamento. È un mercato costruito sull’insicurezza, sul dolore, sul desiderio autentico di essere viste e amate. Ed è proprio questo il nodo più tragico: chi, negli anni, ha disumanizzato il parto, ha lasciato spazio a chi lo sacralizza fino a negare la realtà. Fino a mistificarla. Ma le madri non sono dee. Sono donne. E meritano cura, rispetto e verità”.
“È un fanatismo che si nutre di dolore, e che si blinda per non affrontarlo”, conclude Bubba. “Il problema non è la scelta in sé del parto a casa – che può essere sicura, se seguita da professionisti. Il problema è la mistificazione. Il marketing travestito da spiritualità. E l’omertà che segue ogni tragedia. La soluzione c’è, ed è rivendicare una medicina più umana, che vada incontro alle esigenze della gravidanza e della maternità, anziché porsi in radicale opposizione alla medicina stessa, incoraggiando di fatto pratiche non sicure. La soluzione è collettiva”.