Nel cuore del campo profughi di Nuseirat, nella striscia centrale di Gaza, due giovani fratelli hanno aperto un varco di luce tra la polvere delle rovine. Si chiamano Salah e Abdullah Sarsour. Da aprile hanno costruito Eqraa Ketabak – traducibile con “Leggi il tuo libro” –, un chiosco improvvisato di libri piazzato tra macerie e macigni, con assi di legno che diventano scaffali. Ci si trovano romanzi, poesie, testi di spiritualità e auto-aiuto, in arabo e in inglese. Colori vivi che si oppongono al grigio della distruzione. È un gesto semplice, ma è un atto di resistenza: portare i libri dove i bombardamenti hanno cancellato biblioteche, scuole, università.

“Loro ci distruggono da fuori; noi ci ricostruiamo da dentro”, dice il romanziere Hassan al-Qatrawi. “La fame di cibo è temporanea. Ma la fame di leggere è eterna”. Salah e Abdullah spiegano di averlo fatto non per sé, ma per gli altri. Perché se i lettori non possono più andare verso i libri, i libri devono arrivare a loro. E così il chiosco è diventato punto di incontro, rifugio, luogo dove bambini e adulti recuperano frammenti di sé. La scrittrice palestinese Amal Abu Saif racconta: “Quando mi sento sopraffatta, scappo da questo mondo in un altro tramite i libri. Questo chiosco è diventato il mio rifugio, l’unico luogo dove mi sento ancora me stessa”.

gazaLa bancarella di libri nel campo profughi di Nuseirat, foto diffusa da Zeitun

È un’immagine che commuove e brucia insieme: laddove si tenta di cancellare l’identità di un popolo, i libri continuano a restituirla. A migliaia di chilometri da lì, la Sardegna vive un paradosso che fa male. Mentre a Gaza i bambini cercano storie per non morire dentro, qui militari israeliani vengono accolti in resort di lusso per la “fase di decompressione” dopo aver partecipato alla guerra. Nelle stesse settimane, le nostre coste e i nostri cieli sono spazi offerti alle esercitazioni militari.

Guardare Gaza da una Sardegna di guerra

È difficile non provare vergogna. Vergogna nel vedere la nostra terra trasformata in retrovia complice di chi porta devastazione. Vergogna sapendo che il mare che ci circonda non è solo bellezza, ma anche frontiera addestrata a respingere e a bombardare. La contrapposizione è netta: a Gaza si resiste con un banco di libri; in Sardegna si normalizza la guerra trasformandola in turismo di lusso e in business.

Ma Gaza non è solo il presente della devastazione. È anche il futuro rubato. Più di ventimila bambini e bambine uccisi non significano soltanto una strage di innocenti: sono anche un vuoto di intelligenze, di creatività, di immaginazioni che non vedremo mai crescere. Sono poesie mai scritte, invenzioni mai realizzate, scoperte scientifiche mai nate, canzoni che non ascolteremo.

Se un marciapiede di Gaza può trasformarsi in biblioteca, allora anche la nostra isola può scegliere di non essere complice del genocidio

Come ha osservato con lucidità la critica e scrittrice Daniela Brogi, non si tratta solo di una contabilità del dolore, ma di una mutilazione irreparabile per l’intera umanità. Ogni vita spezzata porta con sé un pezzo di futuro sottratto al mondo intero. Ed è impossibile non collegare questa riflessione al chiosco di Nuseirat: lì, in quei libri sfogliati tra le macerie, ci sono già i semi di quelle intelligenze negate. Semi che qualcuno ha tentato di bruciare, ma che trovano comunque il coraggio di germogliare.

Chiamare le cose con il loro nome

Non stupisce allora che persino i luoghi deputati all’arte, come il Festival del Cinema di Venezia, non riescano sempre a trovare la forza di chiamare le cose con il loro nome. Quest’anno The voice of Hind Rajab, il film che racconta l’ultima telefonata della bambina palestinese di sei anni rimasta intrappolata in un’auto colpita dai carri armati israeliani, non ha ricevuto il Leone d’Oro. Eppure quella voce, spezzata, spenta, continua a gridare dentro di noi.

HEADER palestina 1Immagine di repertorio Canva

Il suo mancato riconoscimento pesa come un’ulteriore censura: perché raccontare Hind non significa solo denunciare un crimine, ma ricordare che i bambini palestinesi non sono numeri, non sono statistiche. Sono persone, mondi interi, futuri sottratti. Ecco allora che le due immagini tornano a sovrapporsi. Da una parte, un chiosco di libri che fiorisce tra le macerie e diventa presidio di speranza. Dall’altra, la Sardegna ridotta a piattaforma militare e parco giochi per eserciti in guerra.

“Tutto il mondo è paese”, si chiama così questa rubrica. E Gaza è anche casa mia. Proprio per questo il confronto è insopportabile: se un marciapiede di Gaza può trasformarsi in biblioteca, allora anche la nostra isola può scegliere di non essere complice del genocidio. Può diventare spazio di solidarietà, di cultura, di resistenza civile. Non si tratta solo di Gaza, ma di noi. Della nostra capacità di guardare in faccia l’ingiustizia e di non normalizzarla. Di decidere se vogliamo essere la terra della pace e dei bambini, o quella delle basi e dei resort per i soldati.

Perché se qualcuno, in un campo profughi, trova la forza di aprire un chiosco di libri tra le macerie, noi non abbiamo scuse. Non possiamo dire che è impossibile resistere, che non ci sono alternative, che non possiamo fare nulla. Se tra i detriti di Gaza si può costruire speranza, allora non c’è giustificazione per restare complici qui.

Nei giorni successivi alla scrittura di questo pezzo Israele ha occupato Gaza City che letteralmente brucia sotto i missili e i razzi.
Per questo oggi è ancora più urgente scegliere da che parte stare. Decidere che non vogliamo essere in alcun modo complici: né con il silenzio né prestando la nostra terra a basi e addestramenti militari. Gaza ci chiama, e la risposta non può che essere resistenza civile, solidarietà, rifiuto della guerra.

Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua.