“Quando mostro agli studenti, provenienti da tutto il mondo, opere di varia natura chiedendo loro una stima delle stesse, raramente ottengo risposte valide. Questo perché c’è ancora un’inettitudine internazionale a gestire l’arte da un punto di vista economico”. Così Giosuè Prezioso esordisce in quest’intervista dedicata a fare ulteriore luce sulla delicata interazione tra arte, economia e tutela da una prospettiva tanto filosofica, quanto pratica, per comprendere meglio il sistema dell’arte, le dinamiche di mercato e le previsioni future.
Intervista a Giosuè Prezioso, direttore di Unicollege Torino
Come si sono intrecciate arte e economia nel suo percorso di formazione?
Ho studiato Storia dell’Arte alla Jhon Cabot University di Roma e mi sono avvicinato al management dell’arte quando sono stato ammesso al Master of Science in Art, Law and Business di Christie’s a Londra. Era l’unico master internazionale che voleva creare una scuderia di esperti in arte, legge ed economia. Lavorando con arte egizia, etrusca, romana, mi sono appassionato e ho iniziato a fare delle consulenze, vendite, aste e docenza
È stata l’ultima edizione di quel master, quindi mi ritengo molto fortunato.
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Secondo lei bisognerebbe incrementare i corsi su business e management dell’arte nei percorsi umanistici?
Assolutamente sì. Nei corsi universitari che tengo la maggior parte degli studenti non è in grado di fare valutazioni corrette. C’è un’inettitudine internazionale a gestire la parte economica. L’arte è sempre stata legata alla sfera del sacro e dunque l’economia dell’arte è ancora taboo in Italia e nel mondo occidentale.
Spesso anche nei corsi accademici e di dottorato in arte e discipline umanistiche non si tratta l’aspetto economico.
Gli studenti di una volta sono i docenti di oggi e non lo sanno fare. La maggior parte degli insegnanti di arte in Italia non sanno economizzare un pezzo d’arte. Parlo di dati statistici. Di conseguenza anche lo studente per quanto preparato sulle opere sarà carente sul loro profilo economico, come se fosse inesistente. Invece sarebbe un diritto degli studenti saperne di più.
Questo alimenta la narrazione dominante secondo cui l’arte non sia un settore produttivo. È vero anche però che economia e arte sono ambiti distinti che richiedono competenze diverse.
Questo è vero, ma questo gap va colmato. Non si capisce mai come si arrivi a un prezzo, si va a intuito, si utilizzano delle equazioni spesso forzate. É un deficit sistemico. Non c’è una colpa. Persino dei master in management delle attività culturali spesso non spiegano come si quota un’opera o su quale piattaforma bisogna andare.
Che consiglio darebbe ai giovani per destreggiarsi meglio nel mercato dell’arte?
Il mercato dell’arte è sfaccettato, frammentario ed eterogeneo. Gli studenti mi chiedono se editoria e musica rientrino nel mercato dell’arte. Anche le discipline performative ne fanno parte. Inoltre, il mercato dell’arte non ha una gestione forte, dal momento che chi lo regola ha competenze più artistiche, storiche e curatoriali, non economiche. Dunque, bisogna orientarsi in un sistema disorientante e privo di regole. In piccolo bisogna comprendere che l’economia può far parte del proprio lavoro, anche un artista può ad esempio vendere con Partita Iva e in realtà l’Italia favorisce molto l’autoimprenditoria. Se l’artista vende direttamente al collezionista, sia l’artista che il collezionista pagheranno meno tasse. Quindi è preferibile che ci sia la vendita diretta piuttosto che mediata.
Giosuè Prezioso spiega perché questo è un buon momento per l’arte in Italia
In proposito, il governo ha accolto l’appello degli artisti ad abbassare l’IVA sulla vendita delle opere d’arte dal 22 % al 5%, cosa rappresenta questo passaggio?
È stato un respiro pazzesco. C’è un antefatto: Il Regno Unito detiene attualmente il 21 % del mercato mondiale dell’arte, l’Italia 1%, parliamo di paesi di grandezza simile. Stupisce che il Regno Unito che ha prodotto molto meno dell’Italia a livello culturale detenga un mercato 20 volte più alto. Questo perché c’è un apparato fiscale molto solido, dunque spesso le tasse non si pagano o vengono ammortizzate e questo alimenta lo scambio e la vendita delle opere. Dunque, quando l’Inghilterra è uscita dall’UE, nessuno degli altri stati si è mosso per riprendere quella quota che il Regno Unito aveva perso con la Brexit. Per questo l’Italia ha mandato questo nuovo messaggio, che è ottimo a livello internazionale. L’Italia potrebbe tornare protagonista nel mercato dell’arte. C’è bisogno di assicurazioni ad hoc per l’arte e di professionisti specializzati, c’è bisogno di risollevare la nostra reputazione e secondo me siamo sulla buona strada.
Un altro segnale positivo è la nascita dei dottorati nelle Accademie di Belle Arti.
Sono d’accordo, ma abbiamo dovuto aspettare troppo. Proprio perché l’Italia è la patria dell’Università, la prima di Bologna è del 1088, questo passo è arrivato tardi. Le discipline artistiche non sono ancora pareggiate perché fanno parte di AFAM; quindi, non è una parificazione paritetica con l’Università. Dal punto di vista costituzionale significa che l’artista che non può fare un dottorato non può accedere a determinati concorsi e dunque viene meno il principio costituzionale per cui siamo tutti uguali di fronte alla legge. E non perché la ricerca non si possa fare nell’arte, ma perché lo Stato ha inibito al mondo AFAM la possibilità di fare ricerca artistica. E per molti anni ci siamo attardati nel permettere all’artista di sostenere la ricerca di cui ha bisogno; così, arranchiamo sullo stato delle ricerche. La bibliografia italiana sul contemporaneo a livello internazionale è molto scarsa. Questo è un grave danno per la ricerca. È passato il messaggio che l’artista appartiene a una categoria diversa.
Non dimentichiamo che le Accademie di Belle Arti negli ultimi decenni sono rimaste ai margini del discorso culturale e quasi ignorate dalle politiche e dai governi.
All’interno del Ministero dell’Istruzione e delle Ricerche il comparto AFAM ha sempre a capo i rettori delle Università, a cui vanno la priorità e la percentuale più alta dei finanziamenti. È un sistema viziato e vizioso. È un’ingiustizia costituzionale e lo dico proprio da direttore di un Università. Per altro l’Accademia richiede materiali per l’arte e non si tiene conto che le spese per acquistarli sono sempre molto alte a fronte di bassi finanziamenti.
Eppure, anche nelle Accademie il livello dell’insegnamento è altissimo, con la presenza di grandi critici come Enrico Crispolti all’Accademia di Roma, Achille Bonito Oliva all’Accademia dell’Aquila…
La differenza la fanno le pubblicazioni che all’università sono maggiori e arrivano in un contesto internazionale. Se le Accademie non fossero state parificate avremmo creato un vuoto costituzionale di fronte ai cittadini che esigevano che il loro livello di formazione fosse parificato con gli altri. E lo dico da direttore di un’Università e con cognizione educativa. È un intervento riparativo per me. Si è creata una gerarchia dei saperi che ha bloccato gli artisti e le artiste e di conseguenza il progresso culturale e economico nel campo.
Dal canto opposto invece, rispetto ai fondi pubblici, la legge di bilancio del 2025 ha tagliato dallo 0,4 % del PIL a quasi lo 0,3% del PIL, una riduzione di quasi 150 milioni, per la cultura, in un anno. Dove verranno dirottati questi fondi?
Non c’è molto welfare, ma i fondi sono dirottati in spese NATO e sulla Difesa, siamo in un paese che si sta preparando alla guerra, e come sempre quando si aggira lo spettro della guerra, arte, cultura e istruzione passano erroneamente in secondo piano. La stessa tendenza a non economizzare sulla cultura si ha anche in piccolo, anche i comuni temono di monetizzare la cultura, perché si pensa che imporre una tassa di soggiorno limiti i flussi turistici.
I tagli principali del 2025 sono stati fatti ai beni librari e agli archivi e poi alle arti live…
I beni librari sono i più fagocitati, perché l’Italia non è un paese bibliofilo. Il bene bibliocentrico non esiste. Sulle arti performative c’è da dire che spesso teatri e realtà performative vengono concessi a cooperative e para-privatizzati, per cui ci si aspetta un’autosufficienza e una capacità di autosostenersi. Mentre per quanto riguarda le arti visive, i musei e le pinacoteche che detengono beni materiali, per lo più pittorici, dipendono direttamente dallo Stato perché si tratta di beni inerti. Ciò viene confermato dal mercato, perché il 78% dei beni artistici venduti sono pitture. Il mondo occidentale è assolutamente pittocentrico. Questo binomio arte = pittura è intrinseco nella maggioranza della popolazione e per questo compriamo e proteggiamo principalmente le opere pittoriche, da cui deriva una distribuzione dei fondi miope.
Sicuramente influisce il fatto che la religione cristiana sia permeata di materialismo, siamo legati alla reliquia, all’oggetto fisico e al bene tangibile.
Infatti, i cristiani cattolici credevano che l’icona di Dio fosse Dio stesso, non è raro che durante i pellegrinaggi alcuni pellegrini prendevano pezzi di icone e le mangiavano, o li diluivano nell’acqua e li bevevano. Pensavano che la pittura fosse l’Arte e quindi Dio stesso. Si è creata questa forma di dipendenza dal bene tangibile, ragione per cui le arti digitali e performative, faticano ad attecchire nel nostro paese, perché non sono tangibili.
Kunsthalle Zürich, DYOR, Kenny Schachter, NFTism. Photo Julien GremaudGiosué Prezioso parla del rapporto tra arte performativa, digitale e mercato
Molte manifestazioni di arte performativa e digitale nascono in contrasto con il mercato, come Fluxus e l’Azionismo Viennese. Come si possono vendere delle opere che, anche per volontà degli stessi autori, sono concepite al di fuori del mercato?
Le leggi a tutela esistono, la Costituzione tutela sia i beni materiali che immateriali, anche le arti performative; per quanto ci si continui a interrogare su cosa sia una proprietà e su come questo concetto muta nel tempo. Lo stesso vale per le arti digitali. L’artista digitale più pagato al mondo è Federico Clapis, aka Pak, italiano che ha venduto The Merge, l’opera più cara registrata per un artista vivente (91,8 milioni di dollari), più di Jeff Koons o Andy Warhol. Il problema è che l’artista non ha un’educazione economica.Le arti performative sono estremamente complesse da trattare dal punto di vista gestionale e manageriale, perché prevedono un’interazione troppo diretta e eticamente scomoda, avendo a che fare con i corpi. Il rischio è sempre quello dell’oggettificazione del corpo, ciò che gli artisti recriminano da molto tempo.
Esistono delle forme di tutela e archivio di performance e arte digitale, spesso a discrezione dell’autore. Rispetto alle performance alcuni artisti vendono oggetti di scena, altri fotografie o video, altri addirittura nulla, come Tino Sehgal. Fortunatamente non è un sistema regolamentato, quindi il volere dell’artista conta molto.
Viviamo in un mondo così veloce che spesso perdiamo la memoria. Come rendiamo disponibile un’opera nel tempo? La performance in realtà rispetto ad altri media, a prescindere dalla permanenza nel tempo, abbatte molte barriere nel “qui ed ora” e oggi può fare da scuola ad altre forme artistiche. Paradossalmente oggi la vera problematica è l’iper-diffusione digitale che abbassa il valore e l’aura delle opere, non l’irriproducibilità. Adesso molti non sentono neppure più la necessità di vedere l’originale o di recarsi al museo e si accontentano della riproduzione. È importante capire come regolare e gestire questa iper-diffusione. L’NFT nasce proprio in risposta a questo fenomeno, è un certificato di paternità di un’opera digitale.
Adesso gli NFT hanno avuto un calo?
Secondo i dati hanno avuto un hype e adesso un grosso calo. Però potrebbero diventare in futuro delle modalità per vidimare i dati e attestarne la proprietà, un po’ come lo SPID, per tutelare qualsiasi tipologia di documento digitale.
Se un’opera certificata viene plagiata è possibile denunciare?
Assolutamente, un giudice può richiamare la proprietà intellettuale, interdire quell’opera e risarcire i danni causati.
DNArt, un’innovazione nell’autenticazione delle opere d’arte
In proposito ha scritto sul suo libro Arte Moda e Geopolitica di DNArt, un sistema di autenticazione delle opere fisiche, di cosa si tratta?
Si, DNArt, creato da uno spin-off dell’università ‘Ca Foscari, è una tecnologia anticontraffazione basata sull’apposizione di un inchiostro trasparente sulle opere d’arte, che richiede un apposito lettore a luci infrarosse.
È interesse dello Stato riconoscere gli originali, dal momento che, come ha scritto, l’arte è uno dei principali mercati di contraffazione in Italia?
L’Italia, se avesse maggiore interesse per la cultura, promulgherebbe delle leggi, prima di tutto economiche, a tutela. In astratto qualsiasi Stato ha e deve sempre avere interesse a proteggere l’arte, soprattutto in Italia in cui il turismo rappresenta il 14% del PIL. L’Italia è bella perché è un paese d’arte, ed è autosufficiente, tanto è vero che anche senza gestire e proteggere il patrimonio culturale a dovere, il turismo non viene meno. I Comuni sono tutti dei piccoli musei a cielo aperto. Si tratta di un patrimonio enorme e diffuso che, nella sua interezza, è di difficile gestione. Esiste anche un pro: l’arte in Italia ha un sistema di vigilation sull’esportazione di opere d’arte molto complesso. Difficilmente un’opera d’arte riesce a uscire dal paese in modo legale. Il mercato dell’arte illegale invece è enorme: durante il COVID eravamo blindati a casa, eppure il numero di opere contraffatte è aumentato. Le persone non potevano muoversi, le opere d’arte sì.
Tra l’altro sono necessarie delle figure competenti, giuristi che abbiano a cuore il patrimonio culturale e artistico, e che promulghino le giuste leggi a tutela degli autentici.
Non esistono figure specializzate, non ci sono molti giuristi o dottori di ricerca che studiano la tutela del patrimonio culturale. Il più delle volte in Italia si creano le leggi a tutela solo perché siamo sanzionati dall’UE e continuiamo a pagare i sanzionamenti. È necessaria invece una rivoluzione che arriva dal basso, un sistema diffuso e una rete di persone competenti.
Una speranza c’è. Rispetto alle generazioni precedenti, i miei coetanei trentenni hanno interessi molto più diffusi e multiformi, a prescindere dalla propria professione. Gli avvocati si interessano di arte e gli artisti si interessano di economia.
Assolutamente, è un buon segno per il futuro. Sono ottimista e penso che siamo sulla strada giusta.Vito Ancona
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