di
Francesco Sessa

Intervista all’amico e compagno dello sciatore italiano deceduto in Cile: «In America ci addormentavamo per il fuso orario e saltavamo le riunioni. Il vuoto è rappresentato dalle borse qui in appartamento. La sicurezza va aumentata»

Giovanni Franzoni parla con la voce rotta dal Cile. Il 24enne di Manerba del Garda, sciatore della Nazionale, ha da poco scritto la lettera più sentita per Matteo Franzoso, morto in Cile lunedì a seguito di una caduta nella pista di La Parva, a una cinquantina di chilometri da Santiago: «Sappi che d’ora in poi porterò la tua vitalità sempre con me e sarò sempre grato per le piccole cose quotidiane che ognuno di noi vive… ogni mia curva sarà anche tua, scieremo insieme ogni gara e ogni allenamento portando avanti quel sogno che abbiamo sempre condiviso».

Franzoni e Franzoso, un legame fraterno.
«Matteo aveva un bel rapporto con tutti: era umile e sorridente, sempre. Voleva godersi la vita senza infastidire gli altri».



















































Quando vi siete conosciuti?
«Io ero in Nazionale “C” e lui già in quella maggiore. Siamo stati compagni di stanza per anni e abbiamo condiviso la prima vittoria in Coppa Europa nel 2021, entrambi in superG: lui il giorno prima di me».

Più che compagni.
«In più di un’occasione, in Coppa del Mondo, abbiamo rischiato di saltare le prove perché ci eravamo addormentati. Lo stesso in America, quando per colpa del fuso ci appisolavamo e saltavamo le riunioni».

Come si può spiegare il senso di vuoto di queste ore?
«Il vuoto è rappresentato dalle borse qui in appartamento. Eravamo in stanza io, lui, Marco Abbruzzese e Leonardo Rigamonti. A risvegliarsi adesso sembra un incubo, c’era sempre spazio per una battuta o una risata prima di uscire, anche alle sei del mattino».

Veniva descritto come un ragazzo molto serio, dedito allo sci.
«Riusciva a prendere il meglio di ogni situazione, sapeva anche scherzare: non ricordo segnali di tristezza, mentre io tendo ad avere più il muso. Era la mia spalla morale».

L’ultima volta che lo ha visto?
«Quando è partito dal cancelletto. Poi l’ho perso di vista dopo lo scollinamento».

Le ultime parole?
«Gli ho fatto una battuta stupida prima della sua ultima discesa».

I genitori di Matteo sono venuti in Cile: li ha visti?
«Purtroppo no, solo il fratello Michele. Sciavo con lui, non lo vedevo da tempo perché si è trasferito in Nuova Zelanda. Ho cercato di distrarlo».

Ora riprenderà ad allenarsi?
«Saranno decisioni singole. Io penso che continuerò, dovrò anche andare in Argentina con i ragazzi del gruppo del gigante. Sono uno che pensa troppo, se vado a casa rischio di perdere la ragione: voglio continuare a fare quello che ci ha unito e a sciare a suo nome».

Ha mai avuto paura sugli sci?
«Le prime volte in discesa. Ogni tanto sui salti è successo. Sappiamo che un minimo rischio c’è. Ma non è accettabile che un amico se ne vada così».

Si parla tanto di sicurezza.
«Va aumentata. La Federazione internazionale ha provato a fare qualche cambio: airbag, anti-taglio. Il problema è in allenamento, ma succede qui in Cile come in Italia, Svizzera, Austria. La mia proposta è che la Fis crei un team di specializzati che controllino le piste di allenamento. Devono essere come in gara».

Matteo aveva dei sogni?
«Gli atleti non li esprimono: sicuramente il suo era andare il più veloce possibile. Se ne è andato inseguendo il suo sogno. Cercava di raggiungere il massimo obiettivo».

17 settembre 2025