di
Gaia Piccardi

È nella scelta di ruoli da perdente che Redford, morto martedì a 89 anni, ha trovato terreno fertile per l’alleggerimento di un karma che aveva previsto per lui la morte di due figli

Abbiamo sognato innumerevoli volte ad occhi aperti di scostare il ciuffo dalla fronte di Robert Redford, rigorosamente da destra verso sinistra, rimboccandogli i capelli dietro l’orecchio, noi ex ragazze degli anni Sessanta. Come fa Streisand – che sul set aveva perso la testa per lui – non una ma due volte in Come eravamo, il romanzo di formazione per adulti che ha cambiato per sempre la nostra percezione della bellezza maschile: quando Katie incontra Hubbell addormentato sulla sedia durante la festa e alla fine, nella scena che anche rivista per la cinquantesima volta provoca un senso di  illanguidimento che sa di piccola vendetta.

Aveva ragione lei, la fumantina pasionaria che distribuisce volantini contro l’intervento degli Stati Uniti nella corsa al riarmo atomico, fedele ai suoi ideali a costo di crescere una figlia da sola («Com’è?», «è bellissima Hubbell»). Umanissimo nella sconfitta, di cui l’ovatta dell’ambiente borghese che gli ha dato successo e soldi non è riuscita ad attutire il colpo, in quel momento Redford lascia affiorare dall’arcipelago delle sue emozioni uno sguardo di amara malinconia. Niente di calcato, giusto una pennellata d’autore. Non solo Hubbell ha rinunciato a Katie, il confronto più alto a cui potesse aspirare; non solo ha preferito la carriera all’amore. Soprattutto, ha tradito se stesso.



















































Un perdente inimitabile

È nella scelta di ruoli spesso da perdente che Robert Redford, spirato martedì nel sonno nel ranch di Provo, in Utah, ventinove giorni dopo aver compiuto 89 anni, ha trovato terreno fertile per l’alleggerimento di un karma che aveva previsto per lui la morte di due figli: uno in culla (Scott) e l’altro adulto (James), per un tumore. Sundance Kid va deliberatamente incontro alla fine con l’amico Butch Cassidy, il candidato democratico Bill McKay vince le elezioni ma poi si rivolge smarrito al suo spin doctor («E adesso cosa facciamo…?»), Jeremiah Johnson arriva stremato alla fine dell’inverno, che è la metafora dell’esistenza, Jay Gatsby è uno dei più grandi loser della letteratura: prima dei titoli di coda muoiono tutti, incluso il mito americano. 

E quando Redford vince, quando Paul e Corie si riconciliano dopo la passeggiata sentimentale a piedi nudi nel parco, quando Henry e Johnny mettono a segno la stangata, quando il Condor fiuta la trappola e Woodward con l’aiuto di Bernstein riesce a scoperchiare lo scandalo che porterà all’impeachment del presidente Nixon, la vittoria non è mai sbandierata, sbruffona, arrogante. Mai. Un Paul Newman meno gradasso, una Cary Grant biondo, un Errol Flynn con più sostanza. Ma non rende. Il cinema ha prodotto uomini più belli, raramente così belli e struggenti. Unico e inimitabile, Redford.

Ecco perché per le sue attrici e per noi ex ragazze è stato facile amare dal primo momento Redford Charles Robert junior da Santa Monica, California, portatore sano di una mascolinità morbida negli anni di piombo di Charles Bronson, Clint Eastwood e del tardo Robert Mitchum, gli altri lo sguardo in tralice e la mascella serrata e Bob l’energia piena di fiducia e ingenuità di chi credeva davvero di poter migliorare il mondo, le persone, il cinema, Hollywood. 

L’impegno civile di Redford

Figlio di un’educazione che aveva provato ad essere bohemienne senza riuscirci (era tornato in California dopo l’anno sabbatico in cui aveva vissuto da artista in Europa), affidabile anche nel tradimento di Debra Winger con quella stangona di Daryl Hannah e nella proposta indecente a Demi Moore in due stupidaggini che, senza di lui, non avrebbero avuto lo stesso tasso qualitativo né un briciolo di autenticità; e, quindi, di credibilità.

Il fascino di Redford, al di là dell’avvenenza fisica e di una straordinaria capacità di riempire lo schermo nonostante un’altezza non da watusso, è proprio l’onestà dell’uomo con gli ideali, determinato ad andarsene solo dopo aver contribuito almeno un po’ all’evoluzione di se stesso e dell’ambiente in cui si è mosso, che fosse la tutela delle risorse in rapido esaurimento del pianeta (è stato un attivista elettrico come il suo cavaliere ben prima che diventasse di moda) o l’impegno civile di cui ha iniettato i film da attore e da regista. 

Tutte le sue donne

Se Nathalie Wood l’ha incontrato al liceo, Jane Fonda l’ha amato per dovere di sceneggiatura più volte, Mia Farrow l’ha sedotto; se Faye Dunaway è scappata con lui, Barbra Streisand gli ha sistemato il ciuffo e Meryl Streep si è addirittura fatta lavare in capelli nel cuore del Kenya; se quel meraviglioso regista che è stato Sydney Pollack ha firmato con lui le pellicole (sei) più indimenticabili della sua cinematografia, noi ci saremmo accontentate di molto meno. 

Del doppio-sguardo back to back di innamorata sorpresa con cui Hubbell scorge Katie dall’altra parte della quinta Avenue, magari, tra il traffico di Manhattan, un attimo prima di accettare la sconfitta più cocente della sua esistenza. Abbiamo follemente amato Robert Redford perché solo la sua gentilezza d’animo, che aveva la certezza dei giusti e la fragilità del cristallo, poteva illuderci che fosse accessibile, sia pure dal divano di casa.

17 settembre 2025 ( modifica il 17 settembre 2025 | 14:26)