Mercoledì il Consiglio regionale della Sardegna ha approvato una legge per regolamentare il suicidio assistito nella regione. Con suicidio assistito, o morte assistita, si intende la procedura con cui ci si autosomministra un farmaco letale, a determinate condizioni: in Italia è legale dal 2019 grazie a una sentenza della Corte costituzionale, ma non è mai stata approvata una legge nazionale che regoli tempi e modi per accedere al suicidio assistito (nonostante numerose sollecitazioni della Corte al parlamento).
In mancanza di indicazioni valide su tutto il territorio nazionale, diverse regioni si sono mosse da sole per regolamentare il suicidio assistito (possono farlo perché la sanità è in parte una competenza regionale, anche se la questione è dibattuta): ora la Sardegna è diventata la seconda regione italiana a essersi dotata di una legge regionale sul tema dopo la Toscana, che aveva approvato la prima lo scorso febbraio.
La legge sarda è stata approvata con 32 voti favorevoli, 19 contrari e un’astensione. Come quella introdotta in Toscana, si basa sulla proposta di legge chiamata “Liberi Subito” e presentata in tutta Italia dall’associazione Luca Coscioni, che si occupa di libertà di ricerca scientifica e diritti civili. Il testo è stato formulato sulla base dei requisiti per poter accedere alla morte assistita stabiliti dalla sentenza del 2019. Definisce i passaggi per la risposta a chi fa richiesta di accesso alla pratica: tra le altre cose prevede l’istituzione di una commissione multidisciplinare per la valutazione di ogni singola domanda, e che spetti poi alle aziende sanitarie competenti fornire l’accesso al farmaco necessario alla pratica, così come eventuali strumenti necessari per l’autosomministrazione.
Ha votato a favore la gran parte dei consiglieri della coalizione di centrosinistra che aveva sostenuto la presidente di Regione Alessandra Todde, assieme a un consigliere di opposizione, Gianni Chessa di Forza Italia. La persona astenuta è Giuseppe Frau, di Uniti con Todde.
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La sentenza della Corte costituzionale del 2019 ha decriminalizzato in alcune condizioni l’aiuto al suicidio, che fino a quel momento era sempre punibile con pene fra i 6 e i 12 anni di carcere. Sempre fino a quel momento, grazie alla legge 219 del 22 dicembre 2017 sul cosiddetto “testamento biologico”, in Italia era possibile chiedere l’interruzione delle cure e sottoporsi a sedazione profonda e continua, che induce uno stato di incoscienza fino al momento della morte. Non si poteva invece chiedere e ottenere un farmaco letale che permettesse di morire nel momento e nel modo in cui una persona sceglieva di farlo.
La sentenza permette il suicidio assistito solo a quattro condizioni, che devono sussistere tutte insieme. La persona che chiede di accedere alla pratica deve essere in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, avere una patologia irreversibile, sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, ed essere tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale» (una definizione non del tutto chiara e su cui si continua a discutere).
A maggio comunque il governo di Giorgia Meloni aveva impugnato di fronte alla Corte costituzionale la legge della Toscana, sostenendo che il suicidio assistito sia un tema di competenza nazionale, e non regionale, e che quindi la legge non dovrebbe essere valida. La decisione del governo è soprattutto politica, visto che i partiti di destra e centrodestra che lo sostengono sono stati generalmente sempre contrari alla pratica. In attesa di una decisione della Corte, la legge resta comunque in vigore: finora sono due le persone ad aver avuto accesso al suicidio assistito in base alla legge regionale in Toscana.
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