Pare serpeggiare ancora nell’orizzonte che incoraggia un rinnovamento della pratica critica il “fantasma” della tradizione, di quel legame indissolubile che in passato la vedeva a braccetto con la storia dell’arte e che oggi si è trasformato più in un esercizio di stile che un’autentica conoscenza della disciplina o in un suo funzionale utilizzo. E se per Vincenzo Trione il patto venuto meno tra le due ha portato a un’incapacità di leggere l’arte del nostro tempo, per lo storico dell’arte e critico Riccardo Venturi la crisi della critica è dovuta alla crisi della storia dell’arte ma perché nel dibattito odierno la critica d’arte è ancora considerata un’estensione della storia dell’arte, da cui mutua quell’approccio storiografico che non produce sapere e dibattito: “Ho l’impressione che i grandi temi della contemporaneità, come il femminismo, il postcolonialismo o l’ecologia, vengano trattati come semplici temi storici, anziché come questioni vive e attuali. Questo approccio rischia di ridurre il dibattito critico a una mera narrazione storica, invece di affrontare il presente con strumenti adeguati”.

“Wunderkammer” di Adalgisa Lugli: la lettura di Riccardo Venturi 

Dunque, secondo Venturi, la critica non può essere confinata all’ambito accademico come la storia dell’arte, ma piuttosto, per incidere sul presente deve dialogare con le scienze umane e naturali. E a sostegno della tesi, riporta ad Artribune il testo con cui si è aperta la trattazione, il saggio Wunderkammer di Adalgisa Lugli, uscito postumo per Allemandi nel 1997 e raccontato su Armi Improprie, che diventa paradigma di un esemplare metodologia per fare critica e su cui Venturi avanza una lettura inedita: “Le camere delle meraviglie raccolgono oggetti privi di uno statuto artistico definito, estremamente variegati, e per comprenderli è necessario un metodo che superi i confini della storia dell’arte tradizionale. In questo contesto, le scienze naturali diventano interlocutori fondamentali. Questo modello di pensiero, basato sul dialogo tra discipline, è ciò che rivendico per la critica contemporanea. Wunderkammer è un libro incompiuto ma anche un’opera aperta. Aperta a cosa? Senza dubbio al rapporto con le scienze naturali. A riguardo mi torna in mente la posizione di un autore desueto e da noi storici dell’arte dimenticato quale John Ruskin, che sosteneva: ‘I was interested in everything, from clouds to lichens’. Personalmente l’ho utilizzato come esergo per un articolo sui licheni, come se cercassi una giustificazione per occuparmi di un elemento vegetale che non sembra far parte dei temi trattabili da uno storico dell’arte, qualsiasi sia il ‘suo’ periodo. E la botanica in genere appassionava i miei professori per questioni d’erudizione o iconologiche: ‘quel frutto lì sta per la passione di Cristo’ e nello ‘stare per’ risiede il problema, riducendo le opere d’arte a testi da decifrare e tradurre in parole. L’inciso di Ruskin è forse una delle migliori professioni di fede di quel meraviglioso, di quelle mirabilia che appassionavano Lugli e molti artisti visivi contemporanei. Riprendere Wunderkammer oggi può comportare, più generalmente, la volontà di riscrivere o di testare l’origine delle immagini, di interessarsi a una storia naturale delle immagini. Un movimento parallelo a quanto avviene nell’estetica o nelle mostre d’arte”, si legge nel testo, che poi prosegue: “Che le mirabilia descritte da Adalgisa Lugli in Wunderkammer e in altri lavori abbiano un futuro nella critica d’arte, nell’arte contemporanea e persino in un’ecologia del sensibile?”

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Per un ritorno della critica: “ragionare con l’opera e non più sull’opera”

Infatti, come spiega Venturi citando il sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour, affrontiamo il presente con gli strumenti della guerra precedente, rimanendo letteralmente disarmati di fronte ai cambiamenti. E questa rigidità è aggravata dalla struttura dei programmi accademici, dall’età media elevata dei docenti e dalla persistenza di tradizioni didattiche superate. A differenza della Francia, dove il critico vive da oltre vent’anni, in Italia la storia dell’arte viene insegnata sin dalle scuole superiori, ma questo porta spesso “a una formazione sclerotizzata”, che ragiona “per generazioni e generalizzazioni”, trascurando le individualità del nostro contemporaneo. Di conseguenza, fatichiamo a comprendere l’emergenza del presente e continuiamo a parlare di “influenze”, anche quando non sono più necessarie.

Critici, curatori e artisti 

Tuttavia, continua, la disciplina può ancora avere un ruolo ma è necessario che il critico instauri un dialogo con l’artista, superando la rigida distinzione tra critico e curatore – pensiero riportato anche Irene Sofia Comi – e tornando a ragionare con l’opera: “Come sostiene l’antropologo Tim Ingold, non si deve più pensare sull’opera, ma con l’opera. Il futuro della critica risiede in questo cambio di paradigma: dialogare con l’artista, con l’immagine, con l’arte in tutte le sue forme. L’arte contemporanea è sempre più orientata alla sperimentazione e alla ricerca e spesso richiede il contributo e il coinvolgimento di scienziati, per esempio. Di conseguenza, la critica deve evolversi per accompagnare questi processi, diventando un luogo di confronto interdisciplinare. Un tempo la critica funzionava perché il contesto artistico era diverso: dominavano pittura e scultura, discipline più ancorate alla tradizione. Oggi, invece, tre quarti dell’arte si muovono nella sfera della sperimentazione. Per questo, la critica non può più essere un’ancella della storia dell’arte: deve dialogare con altre discipline e ragionare con l’opera, non più sull’opera. Solo in questo modo può avere un futuro”.

A cura di Caterina Angelucci 

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