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Parlando con Politico la settimana scorsa, dopo che Israele aveva bombardato i negoziatori di Hamas radunati in Qatar per discutere una proposta statunitense di cessate il fuoco a Gaza, un funzionario della Casa Bianca ha detto: «Tutte le volte che facciamo progressi [sul cessate il fuoco], sembra che [Netanyahu] bombardi qualcuno di nuovo». In base alle informazioni finora disponibili (ma ancora incomplete) i bombardamenti israeliani in Qatar non hanno ucciso i negoziatori, però hanno fatto crollare per l’ennesima volta le trattative per un cessate il fuoco.

Non sappiamo se l’obiettivo primario del bombardamento in Qatar fosse davvero ostacolare i negoziati, ma in ogni caso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha approvato l’operazione con la consapevolezza che questo sarebbe stato il risultato. Non è la prima volta: dall’inizio della guerra Netanyahu ha usato tattiche retoriche, sotterfugi, ripensamenti e operazioni militari per prolungare la guerra nella Striscia di Gaza, come si vede anche in questi ultimi giorni con l’inizio dell’attacco di terra alla città di Gaza.

Da tempo molti media e analisi sostengono che Netanyahu stia prolungando la guerra a Gaza per interesse personale. Continuare la guerra è la condizione imposta a Netanyahu dai due alleati estremisti da cui dipende il suo governo, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e quello delle Finanze Bezalel Smotrich. Ogni volta che si presenta la possibilità di porre fine ai combattimenti, i due minacciano di far cadere il governo; e ogni volta Netanyahu cede e va avanti.

Per Netanyahu rimanere al governo è fondamentale: se in Israele ci fossero ora le elezioni non è detto che sarebbe riconfermato come primo ministro, e senza la protezione del suo incarico politico rischia di essere condannato nei molti processi per corruzione attualmente in corso a suo carico, per i quali rischia anche lunghe pene detentive. L’idea che Netanyahu stia prolungando la guerra anche per mantenere il proprio potere politico ed evitare il rischio della prigione è ormai comunemente accettata.

Il risultato è che, negli ultimi due anni, per decine di volte un accordo tra Israele e Hamas sembrava raggiunto, a volte anche perlopiù concluso, e all’ultimo Netanyahu si è tirato indietro e l’ha fatto fallire, usando scuse e ripensamenti. Ci sono alcuni casi molto evidenti: a marzo di quest’anno Israele ha fatto fallire pubblicamente e deliberatamente il più recente cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, che era stato raggiunto a gennaio. L’accordo prevedeva una serie di passi negoziali che Israele ha boicottato, per poi ricominciare i bombardamenti.

Gli abitanti della città di Gaza dopo un bombardamento israeliano, 14 settembre 2025

Gli abitanti della città di Gaza dopo un bombardamento israeliano, 14 settembre 2025 (AP Photo/Yousef Al Zanoun)

Le tattiche di Netanyahu sono state anche più sottili. Una di queste è cambiare all’ultimo le condizioni degli ipotetici accordi. Nel 2024, dopo alcuni negoziati positivi, in cui un accordo sembrava possibile, Netanyahu cominciò a dire che per Israele era fondamentale mantenere il controllo del “corridoio Philadelphi”, cioè la linea di confine tra il sud della Striscia di Gaza e l’Egitto. Questo complicò e rallentò i negoziati per mesi.

In altre occasioni Netanyahu ha detto che non avrebbe accettato un accordo se Hamas non si fosse «smilitarizzata»; in seguito ha preteso l’esilio fuori dalla Striscia di Gaza dei leader di Hamas ancora in vita, e tutto questo mentre nei discorsi pubblici prometteva che Israele avrebbe ucciso l’intera catena di comando del gruppo.

Quando un accordo sembra vicino, inoltre, Netanyahu avanza proposte massimaliste, come quando alcuni mesi fa ha preteso l’«emigrazione volontaria» della popolazione della Striscia di Gaza, un eufemismo che molti critici hanno paragonato alla pulizia etnica.

Oltre a cambiare i termini dei negoziati, Netanyahu sposta in continuazione gli obiettivi militari della guerra a Gaza. Da tempo il primo ministro dice che non si accontenterà di niente meno che di una «vittoria totale», ma a ogni discorso modifica i termini di questa «vittoria», a seconda delle convenienze. A maggio di quest’anno, durante un discorso in parlamento Netanyahu disse per esempio che le condizioni di una «vittoria totale» sono: «Riportare a casa gli ostaggi, eliminare Hamas, trovare i suoi leader e demilitarizzare la Striscia di Gaza» (peraltro, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto).

Negli ultimi mesi l’aspetto della «vittoria totale» sembra essere cambiato, anche perché ad agosto il governo Netanyahu ha approvato un piano per occupare militarmente la città di Gaza, che dovrebbe essere il primo passo verso l’occupazione di lungo periodo di tutta la Striscia. Questo prolungherebbe di mesi, se non di anni, la guerra, e allontanerebbe ancora le prospettive di pace.

Migliaia di persone lasciano la città di Gaza attaccata da Israele, 15 settembre 2025

Migliaia di persone lasciano la città di Gaza attaccata da Israele, 15 settembre 2025 (AP Photo/Abdel Kareem Hana)

Davanti alle accuse di voler ostacolare il negoziato, Netanyahu accusa spesso Hamas della stessa cosa. È sicuramente vero che anche Hamas non è un negoziatore accondiscendente, e che spesso ha imposto condizioni evidentemente inaccettabili per Israele. Ma varie ricostruzioni giornalistiche hanno accertato che in più di un’occasione negli ultimi due anni Hamas era pronto ad accettare degli accordi, che poi sono sempre saltati.

Queste continue tattiche dilatorie di Netanyahu hanno generato una grossa frustrazione sia nell’amministrazione statunitense di Donald Trump sia in quella del suo predecessore Joe Biden. Nel 2024 Biden arrivò ad accusare esplicitamente Netanyahu di prolungare la guerra per motivi politici. Nonostante questo, Netanyahu non ha mai davvero subìto nessuna conseguenza da parte degli Stati Uniti per i suoi continui ostacoli al negoziato.