Ben 25 anni fa, nel settembre del 2000, andava in onda la prima edizione italiana del Grande Fratello. Un esperimento televisivo senza precedenti per il pubblico nostrano, trasmesso in contemporanea su Canale 5 e sulla neonata piattaforma satellitare Stream (la futura Sky), che offriva la possibilità di seguire 24 ore su 24 la vita dei concorrenti chiusi nella celebre “casa più spiata d’Italia”. Nessuno poteva immaginare, all’epoca, quanto quell’esperimento avrebbe inciso nel linguaggio televisivo, culturale e persino politico del Paese.

Il format, importato dall’Olanda, non era solo un gioco a eliminazione con premi finali: proponeva per la prima volta la costruzione di una narrazione televisiva basata esclusivamente sulla quotidianità di persone comuni. Niente sceneggiatura, niente copione, niente personaggi di professione. Solo ragazzi e ragazze rinchiusi, osservati giorno e notte da telecamere fisse, con i loro rapporti, i litigi, gli amori, i momenti di noia e quelli di tensione. Una rivoluzione per la televisione generalista italiana, fino a quel momento dominata da talk show, varietà, fiction e quiz. Sin dai primi giorni di messa in onda, il Grande Fratello scatenò un dibattito senza precedenti. Non fu soltanto un programma di intrattenimento: divenne un fenomeno sociale, capace di polarizzare opinioni, dividere famiglie, coinvolgere intellettuali e politici. L’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, dichiarò di seguirlo e di ritenerlo sociologicamente interessante, un laboratorio di dinamiche umane che permetteva di osservare in diretta l’interazione tra individui posti in condizioni particolari. Per altri, invece, era l’inizio della fine: la prova che la televisione stava abdicando alla sua funzione educativa e culturale in favore di un voyeurismo di massa. Durissimo fu il giudizio di Massimo D’Alema, che accusò Berlusconi – proprietario di Mediaset – di trasmettere “amplessi a pagamento”. Parole che segnarono l’ingresso ufficiale del reality show nel dibattito politico italiano.

La televisione, ancora una volta, diventava campo di battaglia tra opposte visioni del Paese. Da una parte chi vedeva nel programma un nuovo modo di raccontare la realtà, dall’altra chi lo bollava come degrado morale e culturale. Le polemiche non si fermarono lì. Psicologi, sociologi, giornalisti, scrittori: tutti sembravano avere un’opinione. Alcuni denunciavano la violazione della privacy e l’illusione pericolosa di trasformare in spettacolo la vita privata. Altri sottolineavano come il pubblico fosse attratto non tanto dal gioco in sé, quanto dal desiderio di guardare l’altro vivere, di specchiarsi in persone comuni poste sotto stress. Persino la Chiesa non rimase indifferente, parlando di “deriva etica” e di spettacolo che banalizzava i valori della famiglia, un programma che promuoveva la volgarità, la competizione sleale e la mancanza di rispetto per la dignità umana.

Eppure, mentre le polemiche si moltiplicavano, il programma macinava ascolti record. La finale della prima edizione superò i 9 milioni di telespettatori, con picchi di share superiori al 60%. Cristina Plevani, la prima vincitrice, divenne in poche settimane un volto noto in tutto il Paese. Pietro Taricone, ribattezzato “guerriero” per la sua personalità travolgente, fu trasformato in un personaggio mediatico destinato a lasciare un segno nella cultura popolare italiana. La loro notorietà improvvisa mostrava un altro aspetto rivoluzionario del format: la nascita della celebrità istantanea, la possibilità che chiunque, da un giorno all’altro, potesse diventare famoso semplicemente partecipando a un programma televisivo.

Il Grande Fratello rappresentò dunque una linea di rottura nel racconto televisivo. Prima di lui, la tv costruiva le sue storie intorno a personaggi preparati, conduttori professionisti, attori e attrici. Dopo il reality, l’ordinario divenne straordinario, la banalità quotidiana si trasformò in spettacolo. La televisione imparò a raccontare il nulla, a costruire narrazioni attorno a dettagli insignificanti, a litigi da cucina, a confessioni sussurrate in giardino. Era l’inizio di una nuova grammatica televisiva: quella del reality show, che avrebbe contaminato talk, talent e persino l’informazione. Un quarto di secolo dopo, possiamo guardare a quell’esordio come a un momento di svolta epocale. Oggi i social network hanno reso tutti protagonisti della propria “diretta personale”: selfie, storie, vlog sono il prolungamento naturale di quel meccanismo che il Grande Fratello aveva introdotto nel 2000. Allora la tv era l’occhio che osservava; oggi ognuno di noi è al tempo stesso protagonista e regista della propria vita pubblica. Certo, i detrattori non si sono sbagliati del tutto: il rischio di banalizzazione e spettacolarizzazione del privato è evidente. Ma allo stesso tempo, quel programma aprì la strada a una nuova consapevolezza: la televisione non era più solo intrattenimento, ma un dispositivo in grado di plasmare il tessuto sociale, di stimolare riflessioni, di diventare persino argomento politico.

In definitiva, il primo Grande Fratello non fu soltanto un successo televisivo: fu un prisma attraverso cui osservare le contraddizioni dell’Italia di inizio millennio. Un Paese diviso tra il fascino della modernità e il timore del declino culturale, tra il desiderio di protagonismo e la nostalgia di una tv “alta”. 25 anni dopo, quell’esperimento appare come un punto di non ritorno: la linea di confine che separa la televisione di ieri da quella di oggi.

Tullio Camiglieri