Cos’hanno in comune le corse in moto, liceali arrapati che viaggiano nel tempo, le battaglie di rap e una muffa mutante assassina?
Se state pensando “forse un manga” ve la do buona perché in effetti è statisticamente abbastanza probabile, ma la risposta che avevo in mente io è “il cinema di Joseph Kahn”.
Joseph Kahn è uno dei più prolifici e più affermati registi di video musicali di sempre. E non vi sto parlando di gente che si è fatta le ossa nel mondo dei videoclip, personaggi rispettabilissimi che vennero, vinsero e poi passarono ad altro come Michael Bay o David Fincher: Joseph Kahn fa questo di professione dal 1990, ha diretto da allora poco meno di 200 video e se guardate la lista dei suoi lavori è una roba senza senso: non solo ha lavorato con chiunque – i più buoni, i più brutti e i più strambi –, ma è l’autore di molti, moltissimi dei video più famosi e emblematici degli ultimi 30 anni. Dai Korn ai Backstreet Boys, da Britney a Eminem, dalle Destiny’s Child a Rob Zombie: può non piacere la musica (personalmente traccio la linea agli U2 but that’s just me), ma vi sfido a non trovarne almeno una mezza dozzina che vi facciano esclamare ICONICO!.
Nel tempo libero, e per la precisione ogni 6 o 7 anni, Kahn dice “ma sai che c’è, faccio un film”.
Joseph Kahn mentre aggiorna YouTube per vedere se le views sono aumentate
Torque, nel 2004, era Fast & Furious con le moto. Nelle immortali parole di Nanni Cobretti, l’unico ripoff di F&F più tamarro dell’originale. Una roba talmente stupida che poteva essere spiegata solo col fatto di essere una parodia. E così esagerata che il vero Fast & Furious l’ha raggiunta solo all’altezza del quinto capitolo. Lo studio non capì e si mise di traverso (da allora Kahn i film se li paga di tasca propria), il pubblico non capì e gli voltò le spalle. Rivisto oggi è inguardabile ed esilarante.
Detention, nel 2011, partiva come un mash-up tra Scream e Mean Girls, almeno nelle premesse, per poi prendere una piega allucinata a base di viaggi nel tempo, scambi di corpo e film nel film (nel film). Impossibile da seguire e ancora più difficile da sopportare, ma io l’ho amato alla follia.
Bodied, nel 2017, è ad oggi il suo unico film “serio”. Prodotto da Eminem, parla del mondo delle rap battle dal punto di vista di un bianco che prima ci si avvicina per scriverci una tesi e poi ci rimane sotto, scoprendosi un campione (ma anche un gran figlio di troia), con annessa una marea di complicazioni di stampo razziale e di classe. È un po’ difficile da inquadrare – è un drama? una commedia? un musical senza musica? – finché non ti rendi conto che è in tutto e per tutto un film sportivo.
Ed eccoci infine al 2024, in cui esce la sua quarta e per ora ultima fatica cinematografica, Ick, un creature feature in cui la più classica e soporifera delle cittadine americane viene invasa da una muffa assassina e Brandon Routh è tutto ciò che si frappone tra noi e l’annientamento.
SIGLA!
Similmente a Detention, la sequenza iniziale di Ick funziona come una dichiarazione di intenti e sembra fatta per mettere alla prova lo spettatore. Questo è quello che ti aspetta: ritmo forsennato, montaggio ipercinetico, una selezione musicale aggressivamente nostalgica di un periodo storico di cui NESSUNO ha nostalgia e un umorismo che si muove tra l’omaggio e la parodia. Lo stile di Kahn è massimalista, ultra-citazionista, borderline ADHD – è *evidente* che la sensibilità videoclippara influenza il 100% delle scelte, e questa cosa deve piacerti o ti verrà un esaurimento nervoso entro il primo quarto d’ora. Ma se ti piace, oh fratello, sentirai che questa merda è stata fatta su misura per te.
In esattamente 7 minuti e mezzo, Kahn ci racconta vita, morte e rinascita (figurate) del nostro protagonista, il proverbiale pazzo che predica al vento nei disaster movie Hank Wallace. Dopo aver raggiunto il picco negli anni del liceo – la gloria sul campo da football, la ragazza, la macchina, un futuro radioso – Hank vede sfumare tutto a causa di un infortunio. Addio carriera sportiva, addio università, addio fidanzata cheerleader (una de-aged Mena Suvari che, mi rendo conto solo adesso, ha uno dei nomi più calcisti di sempre). Hello alcolismo, lavoro di merda e una zoppia che lo accompagnerà per tutto il film. Ma il preambolo non si ferma qui: lo storytelling di Kahn è talmente frenetico che inizia a raccontare la risalita di Hank ancora nel prologo: smette di bere, prende il diploma, trova un lavoro un po’ meno di merda e alla fine eccolo qua, ripulito e di nuovo in carreggiata, che fa il professore di scienze nel liceo che ha ancora le foto di lui da ragazzo appesa in corridoio.
Con grandissima umiltà e ancora più autoironia (è del resto anche produttore esecutivo), Brandon Routh interpreta una classica storia di fallimento americano, il quarterback che sembrava destinato a grandi cose e che invece non è riuscito a mantenere una sola promessa: impossibile non vedere un parallelo con la carriera dello stesso Routh, portato in trionfo ai tempi di Superman Returns e poi sparito completamente dai radar della Hollywood che conta, per riemergere solo anni dopo in filmacci di Natale e produzioni televisive non esattamente di serie A.
De-aging canaglia!
Il “the Ick” del titolo (intraducibile in italiano se non come… lo schifo? il bleah?) è una creatura di origine ignota che da un giorno all’altro, a quanto si dice, è semplicemente apparsa. Una specie di pianta in pessima CGI che potrebbe essere o non essere di origine aliena, a volte simile a una muffa, a volte a una radice, a volte a un mostro tentacolare e a volte alla Cosa di John Carpenter. È presente fin dal prologo, spesso sullo sfondo, e con la scusa che si “attiva” solo di notte non la vediamo quasi mai chiaramente in azione. Nel corso degli anni cresce, ramifica, si propaga, diventa parte integrante del paesaggio urbano corrodendo tutto ciò che tocca, e la gente semplicemente… la ignora. La accetta, o meglio, impara a conviverci senza farsi troppe domande, i giovani ci si fanno i selfie e le challenge su TikTok (incorreggibili questi giovani!) e gli adulti ci girano attorno – qualsiasi cosa piuttosto che riconoscere che c’è un problema, o anche solo qualcosa di strano, mettere in discussione la propria visione del mondo o cambiare di una virgola le proprie abitudini. Se pensate che la metafora sia piuttosto lampante, aspettate di vedere quando nel secondo atto the Ick diventa finalmente aggressiva facendo una strage di adolescenti, e la gente continuerà a negare la realtà dei fatti, sostenendo che è tutta colpa/propaganda del deep state o di non credere ai vaccini. Non siete ancora soddisfatti? C’è una scena in cui una scienziata mette in guardia la popolazione suggerendo una serie di misure, sì restrittive, ma che garantirebbero la sicurezza dei cittadini, e un tizio le toglie il microfono dicendo “il bello della democrazia è che la tua parola di esperta vale quanto la mia di persona qualunque, e io dico che dovremmo continuare con la nostra vita come se nulla fosse”. Joseph Kahn è tante cose, ma sottile non è una di queste.
La democrazia all’opera
Parallelamente all’invasione botanica, si dipanano le faccende personali degli abitanti della cittadina di Salcazzoville, USA. Dopo aver lasciato Hank, la fidanzata-trofeo Mena Suvari si è sposata con l’ex nerd del liceo, ora un immobiliarista di successo e stronzissimo, e ha avuto una figlia, Grace (Malina Weissman, la cosa più simile a Jenna Ortega che sono riusciti a trovare con così poco preavviso), l’inevitabile adolescente cinica, depressa e troppo intelligente per il suo stesso bene. Che incidentalmente è una degli studenti di Hank. E, ancora più incidentalmente, forse forse in realtà è figlia sua. Scoperta questa cosa, Hank farà l’impossibile non solo per proteggere Grace dalla minaccia della muffa assassina e dei liceali arrapati, ma anche per conquistare la sua stima, con tutte la perplessità che deriva dal vedere un uomo adulto che cerca maldestramente di fare colpo su un’adolescente. Attorno a loro, una schiera di liceali presi di peso da ogni singola commedia teen, con particolare focus sulla migliore amica goth, lo skater fattone (devo confessare che non lo vediamo mai né andare in skate né farsi una canna, ma l’estetica è inequivocabilmente quella – o sono io un matusa che si fa guidare dai pregiudizi?) e, new entry di questo particolare momento storico, il tizio woke.
Ora, su questo c’è da aprire una piccola parentesi perché so che che una parte di pubblico in area Gen Z l’ha presa un po’ sul personale. Il problema con le parodie della cosiddetta “cultura woke” (una cosa che non esiste davvero ma facciamo finta di sì per amore della conversazione) è che non è mai chiaro se si sta prendendo in giro quei valori o chi di quei valori si fa portavoce in modo un po’ ottuso (o, come in questo caso, solo per scopare). Sulla differenza che corre tra l’essere effettivamente rispettosi del prossimo e fare virtue signalling Kahn ci ha fatto un intero film, Bodied, quindi per me è abbastanza chiaro dove si posiziona in questo dibattito, ma capisco anche che non ci si più aspettare che tutti siano esperti della filmografia e delle idee del regista di Thong Song.
Il fatto è che Ick prende in giro tutti, giovani e adulti, perché è la storia di due outsider – Hank e Grace – che non si integrano e riconoscono in niente, e tutti gli altri sono degli adorabili, sacrificabili cazzoni. È anche un film che parla di apatia, riscatto, paranoia e post-verità, scontri generazionali e polarizzazione del dibattito politico su una colonna sonora di Hoobastank e Dashboard Confessional: cerchiamo di prendere quello che c’è di buono e non creare aspettative irrealistiche su quanto possa essere profondo o affidabile il messaggio.
“Vindicated, I am selfish, I am wrong, I am right, I swear I’m right, swear I knew it all along…”
E a proposito di questo – che colonna sonora incredibile ha, Ick!!
È un film fatto al 90% di needle drop e in metà dei casi non si preoccupa neanche di darne una giusta motivazione: un personaggio si mette le cuffie, un dj mette su un disco e semplicemente partono i Good Charlotte o i Blink 182. Esattamente come dicevo sull’incipit, questa è roba che deve piacere o corri il rischio di fare una strage, ma se quel punk-pop-emo orecchiabile e inoffensivo è stato –nel bene e nel male– la colonna sonora della tua adolescenza, canterai a squarciagola dall’inizio alla fine. E, incredibilmente, ha senso. Non per quello che dicono quelle canzoni, non per dove sono piazzate, ma per cosa rappresentano oggi per chi le ascolta: nostalgia (“che bello che era avere 16 anni e non dover fare il 730!”), rimpianti (“come vorrei avere ascoltato della musica migliore!”) e vivere la vita un quarto di quattro quarti alla volta.
Primo trailer che vedo che, invece degli attori, si vanta dei gruppi nella colonna sonora
Non sono difficili da riconoscere i film diretti da registi di videoclip: sono sempre molto attenti alle scelte musicali e hanno intuizioni visive non scontate, bravissimi a evocare coolness o creare atmosfera, ma arrancano quando c’è da raccontare una storia complessa o personaggi con uno spessore. Del resto il loro mestiere è comunicare efficacemente trame stra-elementari in esattamente tre minuti e mezzo, cinque se la casa discografica sborsa extra budget.
Quelli di Kahn, però, non sembrano film fatti da uno abituato a girare video musicali: sembrano proprio video musicali. Il linguaggio è lo stesso, ma anche il ritmo, la scelta programmatica di privilegiare il mood a discapito della storia, o il fatto che in un’inquadratura non succede mai una sola cosa ma almeno due o tre contemporaneamente. Ick dura 90 minuti spaccati ma sembra quattro film compressi insieme, un mischione di generi e suggestioni in cui convivono la teen comedy, l’horror, la satira e la fantascienza. Blob, The Faculty, Shawn of the Dead (c’è tanto Edgar Wright nei film di Kahn, del resto un altro che prima decide la colonna sonora e poi ci scrive attorno la scena), Don’t Look Up e Il colore venuto dallo spazio frullati insieme e a velocità x3.
La mucca venuta dallo schifo
Non ho idea di quale sia il futuro di Ick. È passato a una serie di festival e ha fatto una manciata di proiezioni in USA quest’estate, al momento sta facendo una faticaccia per avere uno straccio di distribuzione in digitale nei paesi anglo-parlanti. Come gli altri film di Kahn, si tratta di una cosetta indipendente e senza nomi di richiamo, una campagna pubblicitaria decente (in rete si trova a malapena un singolo brutto poster quasi sicuramente fatto con AI) o un grosso passaparola la vedo difficile che lo guardiamo in molti oltre a me, Nanni e le famiglie di chi ci ha lavorato.
Spero vivamente di no soprattutto per Brandon Routh, che merita una carriera molto migliore di quella che ha avuto e sarebbe bellissimo se questo film segnasse l’inizio di una rimonta in grande stile di quelle che piacciono a Hollywood.
“Well I’m a punk rocker, yes I am”
Fottesega invece di Joseph Kahn, che si starà probabilmente rotolando nei miliardi dell’ultimo video di Taylor Swift: tieni duro, campione, con te ci becchiamo puntuali fra altri sette anni.
Festival-quote:
«Non ho ancora visto un film di Joseph Kahn che non mi abbia fatto pensare “questo tizio dovrebbe girare tutti i film”»
Quantum Tarantino, i400calci.com«Nostalgia KAHN-aglia»
Gioco di parole che mi è venuto in mente troppo tardi, sarebbe stato perfetto come titolo della rece
SIGLA DI CHIUSURA: