È una narrazione della natura e una celebrazione della simbiosi tra uomo e ambiente. L’ultimo libro di Matteo Righetto, Il richiamo della montagna, ci sprona a ritrovare la nostra umanità, ad ascoltare il richiamo della natura per attuare una rivoluzione culturale profonda che deve affondare le radici nella spiritualità della montagna.

Da cosa nasce l’esigenza di mettere nero su bianco queste tematiche?
«Fin da bambino ho sempre avuto una grande sensibilità nei confronti dell’ambiente, della natura, del creato e con il pontificato di papa Francesco mi sono reso conto che anche da un punto di vista spirituale c’era davvero tanto da fare. Si sono aperti dei canali culturali e interpretativi che andavano a unire la mia sensibilità con una sorta di necessità. Il libro nasce dall’urgenza di risvegliare le coscienze, sensibilizzare le persone sui temi ambientali e far capire loro due cose. La prima che noi siamo il creato, non siamo i dominatori del mondo, ma siamo i custodi della terra. La seconda osservazione riguarda il fatto che non possiamo continuare soltanto attraverso la scienza a cercare di risolvere le questioni ambientali. La scienza è fondamentale, è importantissima, è necessaria, ma dobbiamo fare una conversione ecologica prima di tutto dentro di noi. La meraviglia che sta intorno a noi è bellezza, poesia, sensibilità umanistica, è filosofia, ha una sua lingua, ci parla, ci dà delle indicazioni. Il problema è che abbiamo perso questa lingua, abbiamo abbandonato il dialogo con la natura accecati dal consumismo, dalla frenesia, dall’ego, da ogni forma di egoismo ed egotismo da ogni forma di corsa al superficiale benessere, salvo poi ritrovarci infelici, ansiosi, soli. Nella natura potremmo trovare le connessioni di cui abbiamo bisogno per trovare noi stessi».

E qui entra in gioco il “selvatico”: cosa rappresenta?
«In tempi lontani c’era una connessione selvatica, dove selvatico non significa selvaggio, ma poetico, ritrovare cioè quella bellezza che assaporiamo di fronte a uno scenario mozzafiato. Quando siamo in un bosco e stiamo bene, ci rilassiamo. Ecco che in quegli istanti, magari inconsapevolmente, ci connettiamo con quell’antica voce».

Questo richiamo del selvaticus ce l’abbiamo tutti, è innato o richiede una certa sensibilità?
«È chiaro che ci sono persone che hanno una maggiore sensibilità rispetto ad altre. Però ci si può educare e si può essere educati: quando porto i ragazzi in un bosco, non mi limito a fare una passeggiata, un esercizio muscolare, ma insegno loro e faccio vedere loro che il bosco ha un suo respiro, che c’è tanta vita, c’è una armonia di suoni. Queste cose si possono insegnare, così come lo si fa con la letteratura, la filosofia, la matematica. È quello che ha fatto san Francesco o moltissimi monaci benedetti o i mistici cristiani. Siamo tutti insegnanti e lo possiamo fare quando parliamo di natura. La religione, lo dico da cristiano, dovrebbe avere un grandissimo compito in questo senso. Cosa significa dirsi cristiani? La Laudato Si’ è uno dei libri più illuminanti che io abbia letto, il papa spiega chiaramente cos’è l’ecologia integrale, dà una visione sistemica di un’interezza, di una pienezza».

Nel libro si parla di richiamo della montagna, ma il rapporto fra montagna e pianura? C’è un richiamo della pianura? Queste tematiche si possono trasferire in altri contesti, ai mari, ai borghi che stanno scomparendo?
«Uso la montagna come sineddoche, cioè parlo della montagna, ma per parlare del tutto, nel senso che parlo della Terra e credo che questa riconnessione possiamo trovarla anche in un parco pubblico, in un argine. Non occorre dire montagna, basta aprire gli occhi e anche nelle città dobbiamo ritrovare un equilibrio. La pianura è la figlia della montagna, la montagna è madre di tutte le pianure. In questo libro invito i lettori e le lettrici a riscoprire la sacralità della natura. Ogni volta che un albero viene abbattuto senza uno scopo collettivo o di particolare interesse pubblico è una dissacrazione del creato, quando inquiniamo i mari dissacriamo il creato così come gli allevamenti intensivi, lo sfruttamento del suolo sono dissacrazione».

La domanda da porsi è che tipo di turismo montano e di economia delle Terre Alte ci immaginiamo fra dieci-vent’anni: gli amministratori si pongono questa domanda?
«No, perché non hanno più una visione del futuro. La politica di oggi si basa sul consenso immediato, sul sondaggio giorno per giorno e quindi non ha più interesse a programmare, pianificare a lungo termine, anche a costo di essere impopolari. Perché c’è bisogno dell’immediatezza del voto, del consenso. E poi c’è l’ego, accelerato dalla velocità dei tempi che viviamo e questo non porta nulla di buono per la collettività e per il rapporto con la Terra. Dobbiamo avere quello che Mario Rigoni Stern chiamava il senso del limite. Il problema dell’overtourism, ad esempio, non può essere ridotto al termine selfie. Il punto – e lo dico in modo brutale – è che ci muoviamo troppo, siamo ipercinetici. è un turismo mordi e fuggi, rappresentato iconicamente dal selfie. In questo la montagna ci aiuta a riconquistare dei tempi più lenti, più contemplativi. Se entro in un bosco ho la possibilità di pormi in ascolto di me stesso ed esco ricostruito e rigenerato, più consapevole, più capace di ascoltare, di stare con gli altri, di fare silenzio».

Citando ancora Rigoni Stern, nel libro si dice che bisogna ripartire anche dalle parole che devono essere semplici, quindi centra anche il linguaggio?
«Serve però un distinguo tra linguaggio semplice e linguaggio superficiale. Viviamo in un mondo che spaccia la superficialità per semplicità. Nella semplicità c’è saggezza, giustizia, misura, comprensione. Nella superficialità c’è l’inganno, c’è la reductio ad unum della complessità, c’è spesso l’imbroglio. E purtroppo oggi viviamo in un’era in cui la politica cerca un consenso grazie alla banalità, alla superficialità spacciandola per semplicità. La semplicità è quella dei giusti, che scioglie i nodi. La superficialità ci porta a sbattere, dietro la semplicità c’è la saggezza, lo studio, la conoscenza. Dietro la superficialità c’è l’ignoranza».

C’è una visione positiva del futuro?

«Coltivo la speranza, che non vuol dire immaginare che tutto andrà bene. Per me la speranza è un atto di responsabilità. Vuol dire agire, fare, partecipare. Fare comunità. Dobbiamo insegnare ai ragazzi a coltivare la speranza, comunque andranno le cose è un dovere morale far sì che vadano meglio. Nel libro della Genesi, Dio chiede ad Adamo che si sta nascondendo: “Dove sei uomo?”. Dio sa dove è nascosto, ma il senso è “dove sei, dove ti trovi in questo momento della tua vita? A che punto sei della tua crescita individuale, personale e morale”. è una domanda che dovremmo porci tutti i giorni».