La nonna sembra appartenere a un altro pianeta rispetto a sua figlia e alla nipote.
«Non parlano la stessa lingua, non riescono a comunicare ma alla fine si abbracciano, perché la nonna capisce che la figlia sta male. Mi piaceva questa idea, di non parlarsi ma di comprendersi lo stesso, succedeva così anche con mia nonna».

Il legame tra fratello e sorella sembra più forte di quello tra madre e figlia.
«Non è più forte, è diverso. Tra Alpha e la madre il rapporto è difficile, nel film è chiamata solo “mamma”. È la mamma di tutti, di Alpha, del fratello, dei suoi pazienti, di chiunque abbia bisogno. È la madre con la “M” maiuscola. Questo rende più arduo il percorso di emancipazione di Alpha, che deve reinventarsi al di fuori di quel legame. Il fratello si trova in un momento in cui ha bisogno di sua madre, mentre Alpha cerca di smettere di averne bisogno. Ma non ci riesce del tutto, perché è un’adolescente e desidera indipendenza».

Nel film non si nomina mai l’Aids, ma il riferimento è chiaro: ricorda il momento in cui lei ne ha preso coscienza?
«Sono nata nel 1983, lo stesso anno in cui la malattia ha avuto un nome. Non ricordo ovviamente il momento della scoperta, ma la mia adolescenza si è svolta negli Anni ’90, il periodo critico in cui non era più possibile negare. La malattia aveva colpito il mondo intero, ma la società continuava a negare la necessità di cura, dignità e riconoscimento per le persone malate. Tutti puntavano il dito, dicendo che era colpa loro, che non potevi toccarli o respirare la stessa aria. È stato un periodo terribile, orribile. Credo che la società abbia toccato un punto moralmente molto basso. E non c’è mai stata una vera riparazione o riconoscimento di come furono trattate quelle persone, fatto che ha generato un effetto domino di traumi nelle generazioni successive».

Il film è dedicato a sua madre.
«Ho un rapporto molto forte con lei, la ammiro molto. Siamo estremamente vicine, anche se molto diverse. Lei è medico, io ho scelto tutt’altra strada. Credo che il nostro legame sia così forte proprio perché mi ha sempre lasciata essere me stessa. Ha sempre sostenuto la mia spinta ad esprimermi e il mio lavoro, anche se a volte non comprende tutto di quello che faccio».

Il film parla anche di paura. Ha preso un tema degli Anni ’80, ma sembra molto attuale…
«Sì, assolutamente. Ho scelto di raccontarlo ora anche perché, come tutti, vivo nella paura e in uno stato di choc difficile da concettualizzare. È come se il mondo stesse tornando indietro. Per me è impossibile tradurre questa sensazione in fiction, perché comporta una specie di torpore. La pandemia da Covid ha amplificato tutto: il mondo si è fermato di colpo, e il futuro delle giovani generazioni, già incerto, è diventato fragilissimo. Questo lascerà cicatrici profonde. Sento che siamo all’inizio di un ciclo oscuro. Per raccontarlo ho dovuto tornare agli Anni ’80 e ’90, al primo momento in cui ho percepito la paura di un’apocalisse imminente. In un certo senso, è stato un modo per esorcizzare il timore che provo oggi e la preoccupazione crescente per i più giovani».

Ha detto che Pasolini ha aggiunto un passo all’umanità col suo cinema… Perché?
«Sì. Perché ha scavato nell’essere umano con lucidità e filosofia, senza mai arrotondare gli spigoli o rendere le cose belle solo per estetica. Guardava l’orrore e l’amore insieme, e per farlo doveva essere una persona incredibilmente amorevole. Ma questo gli è costato molto. Tra i suoi film, non saprei scegliere tra Teorema, Il Vangelo secondo Matteo e Salò. Amo molto Il Vangelo secondo Matteo: è incredibilmente moderno, sacro e profano allo stesso tempo, profondamente umano. Ha messo la Bibbia al livello della nostra umanità…».

Cerca lo stesso nei suoi film?
«Anche io cerco di trovare il sacro nell’essere umano, non calato dall’alto, ma da dentro di noi. Amo anche la scelta musicale fatta da Pasolini: l’uso del gospel Sometimes I Feel Like a Motherless Child sulla strage degli innocenti resta tutt’oggi una scelta rivoluzionaria. Era davvero un genio, capace di vedere l’umanità per ciò che è. Un dono enorme, ma anche un fardello».