Quei bravi ragazzi, ancora oggi non ha pari nel saperci descrivere la mentalità mafiosa, la cultura del malaffare, cosa significhi farne parte. Martin Scorsese quel 19 settembre del 1990 porta nelle sale un capolavoro ancora oggi attuale, significativo, nel parlarci dell’America delle strade e della mala, l’essenza stessa della società a stelle e strisce.
Un biopic mafioso capace di cambiare tutto
Quei bravi ragazzi neppure doveva esistere, quando era sul set de Il colore dei soldi, Martin Scorsese era deciso a non parlare più di criminali e affini, poi però gli mettono sotto il naso il libro di Nicholas Pileggi: “Il delitto paga bene”. Non era un libro qualsiasi, di fatto era la biografia di Henry Hill, che per tanti anni aveva gravitato come satellite attorno al boss Paul Vario, tra gli elementi di punta della famiglia Lucchese, tra le più potenti cosche di New York. Quei bravi ragazzi diventerà il suo capolavoro definitivo, il trattato per eccellenza non solo e non soltanto sulla mafia, ma più ancora sulla sua cultura, la sua mentalità, i suoi rituali sociali e su quale umanità l’abbia abitata. Esce in sala il 19 settembre 1990, dopo essere stato presentato al Festival di Venezia di quell’anno, sarà un bel successo di pubblico ma soprattutto la critica, unanime, ne sottolineerà la potenza, la perfezione stilistica e di narrazione. La sua eredità ad oggi lo rende un elemento anche della pop couture, di fatto è il film che ha ridefinito il genere mafia-movie, ha stabilito un apice mai più raggiunto, né prima né dopo.
Martin Scorsese per così dire, gioca in casa, parla di un ambiente che conosce molto bene, quello della Grande Mela del secondo dopoguerra, nelle mani delle cosche malavitose dei “bravi ragazzi”. Lo fecero con l’appoggio tacito J. Edgar Hoover, con gli accordi sottobanco farti con i servizi segreti, di fatto ebbero campo libero per espandere il proprio dominio per diverso tempo. Ma al centro non c’è un grande boss, non c’è Sam Giancana, Vito Genovese o Frank Costello. Qui abbiamo Henry Hill, mezzo irlandese e mezzo italiano, nato in una delle tante famiglie del sottoproletariato di Manhattan degli anni ‘50, deciso a diventare un criminale perché, nel suo piccolo universo, sono gli unici che hanno i soldi, il rispetto, il potere. Quei bravi ragazzi è un biopic classico nella struttura, ma assolutamente atipico nella semantica, nella caratterizzazione. Ray Liotta, fino a quel momento un oggetto misterioso del cinema, presta i suoi occhi verdi e il suo fare da simpatico mariuolo a questo ragazzo, che in breve entra nel giro grosso, sotto l’ala protettrice del boss Paulie Cicero (Paul Sorvino).
C’era una volta in America dopo 40 anni non ha perso nulla della sua potenza
Il 1° giugno 1984 usciva per la prima volta in sala il capolavoro assoluto di Sergio Leone, capace di depositarsi nell’immaginario come pochi altri film
Si tratta di un piccolo universo dalle regole rigide quanto flessibili. Attorno, Martin Scorsese ci inserisce il puzzo della strada, degli ultimi, dei tanti figli di migranti che solo con il crimine organizzato fanno “la scalata”, per così dire. Quei bravi ragazzi è quindi anche un film sociale, sull’America, sulla sua composizione in eterno mutamento ma dalle leggi sempre uguali e con una regola fissa: la criminalità organizzata è un rito di affermazione per ogni minoranza. Henry fa amicizia con una quantità sterminata di figuri sinistri e assieme ridicoli, chiusi in un feudo in cui omertà, fedeltà, silenzio, sono tutto ciò che conta apparentemente. Fin dall’adolescenza il suo migliore amico è Tommy DeVito (Joe Pesci) a completare la trinità di riferimento c’è il leader, il mentore, un Robert De Niro in stato di grazia nei panni di Jimmy Conway. Martin Scorsese ce li mostra mentre si fanno strada, in un mondo ipocrita, che imita e assieme si stacca dalla società. Il tuo migliore amico, quello che hai conosciuto per tanti anni, è l’uomo che ti ucciderà domani: ufficialmente si è virtuosi, si rispetta le regole, si creda alla famiglia e i suoi rituali sacri.
Poi però possono avere delle amanti e fare ciò che si vuole. Una regola ci fa comprendere subito Scorsese: c’è chi può essere toccato e chi non può essere toccato. Quei bravi ragazzi ci fa entrare dentro un mondo folle, violentissimo, dove la cupidigia è l’unico denominatore comune, dove, anche più profondamente rispetto a Toro Scatenato, la violenza è tutto ciò che serve. Ma sotto, sotto, c’è anche l’idea che fare il criminale ti renda migliore degli altri, che sono fessi, senza palle. In galera Paul e gli altri se la spassano, ogni cosa ha il suo rituale, il pranzo, l’aglio tagliato con la lametta, il contrabbando pure. Henry Hill non vuole essere una persona come le altre, l’american dream si unisce all’ideale di vita borghese e la sua negazione. I figli, il focolare domestico, ma poi le belle donne, feste, begli abiti, macchine. I rapporti umani nella mafia sono condizionati da regole rigide, Henry e Jimmy non sono italiani, non saranno mai affiliati, ma possono nutrirsi di quelle regole, in perfetta antitesi con gli istinti più animaleschi che il loro stesso ambiente in realtà incoraggia.
La mafia ci rivela il vero volto dell’America
Simbolo di tutto questo è lui, Tommy. Joe Pesci quell’ambiente lo conosceva, così come lo conosceva Martin Scorsese, e ci dona la sua più grande interpretazione di sempre, insediata solo da quella in Casinò. Assieme, formano una diade con cui costruire il perfetto esempio di criminale, quello vero, incallito, feroce e vile. Carismatico, narcisista, istintivo, è protagonista di una delle scene più iconiche della storia del cinema quel “Ti sembro buffo?” tratto da una vera schermaglia tra mafiosi. Rimane il momento più importante nel film di Martin Scorsese semanticamente, per chi ci fa capire la pericolosità insita in un ambiente dove ci si ammazza per uno sguardo sbagliato, per un sospetto, dove dopo aver fatto un colpo particolarmente redditizio, i tre si mettono semplicemente a far fuori tutti i complici, gente che conoscevano da anni, con cui avevano scherzato e bevuto assieme. Semplicemente magnifico per scrittura, Quei bravi ragazzi si nutre di una regia che è non solo formalmente tra le più grandi di sempre, ma anche un insieme di segnali e metafore grandioso.