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La svolta, forse, è stata l’uscita di Persona, l’album del ritorno sulle scene di Marracash, nel 2019. Da lì, il rap italiano ha preso un altro corso: non più musica “giovane” e per “i giovani”, qualsiasi cosa voglia dire, ma genere maturo che può parlare a tanti, oltre gli steccati e dentro gli ambienti più reazionari, come testimonia la Targa Tenco – il feudo della canzone d’autore, nel bene e nel male – sempre a Marracash per il successivo Noi, loro, gli altri (2021), che l’ha definitivamente consacrato come artista “per tutti”, altroché. Nuovo intellettuale, quasi cantautore, chissà. La chiave, in ogni caso, è stata semplice: lasciarsi alle spalle non una certa sfacciataggine, che nell’hip hop ci vuole, ma la cialtroneria, verso canzoni che somigliassero sempre più a sedute di analisi, personali e sociali, comunque intime. Se il rap, com’è vero, resta lo strumento migliore per indagare la società – per immediatezza, ferocia, aderenza al vero – tanto vale indagare chi, quella società, la vive, togliersi di mezzo l’iperrealismo gratuito (le macchine, le donne, le droghe ostentate, perché “i nostri figli sono così”) e la ricerca della hit facile, e fare introspezione.
Un genere maturo
Era giusto e fisiologico, a quel punto, che a cominciare fossero gli ultra-quarantenni del giro, da Fabri Fibra, Salmo e Guè, sempre micidiale nel trovare secondo letture al suo stile di vita dissoluto. Meno scontato era, ecco, che a farlo fosse Ernia, cioè Matteo Professione, classe 1993 da Milano. Se non altro, per motivi generazionali. Tanti lo conosceranno per Superclassico, cavallo di battaglia da 700mila copie vendute in pieno Covid, altri ne avranno sentito parlare per Buonanotte, il pezzo con cui nel 2022 aveva raccontato l’aborto visto dal padre della coppia, già più intimista e per certi versi sociale. Nel 1978, ok, c’era Venditti con Sara, ma trovatela oggi, nel pop, una canzone che affronta questo tema – e già questo dovrebbe farci riflettere sull’importanza del rap.
Penna sensibile e soprattutto consapevole, cresciuto nel mito di Guè – con cui condivide il retaggio, mai nascosto, di piccolo borghese sceso in strada, quindi non la solita storia di case popolari e riscatto, ma quella di chi in parte taglia le radici ma resta, comunque, “diverso” – e dei Club Dogo tutti, Ernia nel nuovo album Per soldi e per amore, uscito oggi, dimostra meglio di tutti dove sta andando l’hip hop stesso.
Gli standard si sono alzati, la sensibilità del pubblico anche: dischi come Milano Angels di Sfera Ebbasta e Shiva, trap pura che sembra fatta con l’intelligenza artificiale, riescono ancora a parlare a un nucleo anche ampio di affezionati, ma il genere per crescere ha bisogno di altro, soprattutto appunto di una capacità di analisi e di guardarsi dentro, insomma di spessore letterario. Ernia, anche più di Tedua, è tra i primi della sua leva a mettersi su questi passi, con un lavoro in cui in qualche modo si porta le stigmate del gigante – si parla, alla fine, di un rapper ultra-popolare, che si esibisce nei palasport, pieni – per suonare diverso, a partire dalle produzioni minimali, addirittura piano e voce, di Charlie Charles, architetto della rivoluzione della trap del 2016, dallo stesso Sfera Ebbasta a Ghali, evidentemente “cresciuto” anche lui. Negli Stati Uniti, su questa scia, c’è stato Kendrick Lamar, che ha vinto un Pulitzer per il valore dei testi: non è che il livello debba essere lo stesso, s’intende, ma perlomeno provarci, ecco, questo sì.
Sarà allora che Ernia ha trent’anni, ripete nelle interviste. Sarà che è diventato padre. O sarà che, in senso più ampio, è semplicemente il momento giusto per la scena. Sta di fatto che, davvero, questo è l’album che racconta meglio chi ci sia dietro la generazione di rapper di oggi, quelli di trent’anni appunto. C’è tutto: la famiglia, la rincorsa verso la gavetta e la fame, ma anche le critiche al sistema-musica – da cui lui, comunque, non si sente estraneo – e il rapporto malato con i soldi, fino al senso di vuoto che comporta il successo, sintetizzato alla perfezione nell’introduzione di Mi ricordo. Ci sono, ecco, testi con figure retoriche, spietati ma anche lucidi, pungenti, svegli, per un racconto intimista che – ed è questo il punto – non fa neanche notizia, ma conferma quali siano, oggi, gli standard del rap italiano. L’hanno fatto per primi i quarantenni, ora tocca pure ai trentenni.
Sagre, feste aziendali, ospitate in discoteca: tutto quello che i cantanti fanno (ma non dicono)I nuovi cantautori?
E poi c’è Perché, duetto con Madame sfumature, queste sì, esplicitamente sociali, tra carceri, immigrati e quant’altro. Di nuovo: quanta di questa sostanza si trova, oggi, nel pop da radio? Quanta di questa va a Sanremo? Se si toglie parte dei cantautori, comunque una riserva indiana, e tutta la musica più o meno indipendente, pur sempre pochina, siamo ai minimi termini. E invece nell’hip hop, tra Fabri Fibra, Marracash e lo stesso Ernia, tra gli altri, il livello è decisamente un altro. Per non parlare del giovanissimo Kid Yugi, non a caso ospite in Per soldi e per amore, un’enciclopedia vivente applicata al racconto di strada. Per questo non ha senso continuare a considerare l’hip hop come “non-musica”, anzi. Semmai, è un genere che si sta emancipando dalla necessità della hit, che sta maturando e che, a livello di testi, per contenuti e profondità, mette carne al fuoco come nessuno. Guai a ignorarlo.