Un genitore su due di bambini con disabilità ha sperimentato discriminazioni sul lavoro; oltre 6 famiglie su 10 hanno pagato di tasca propria prestazioni sanitarie o riabilitative nell’ultimo anno, spesso per integrare o dare continuità a quanto offerto dal SSN; quasi 1 su 4 segnala che il figlio non frequenta mai amici fuori da scuola; il 39% ha rinunciato ad almeno una gita scolastica negli ultimi due anni (1 su 2 al Sud e Isole). Sono solo alcuni dei risultati della nuova indagine Paideia–Doxa sull’impatto della disabilità sul sistema familiare, che quest’anno è stata condotta su oltre mille famiglie (metà con figli con disabilità e metà senza) ed è stata presentata oggi, 19 settembre, durante il Festival annuale della Fondazione.

Cosa c’è di nuovo

Fabrizio Serra

Fondazione Paideia, un’organizzazione impegnata da oltre trent’anni al fianco di bambini e bambine con disabilità e delle loro famiglie, aveva già commissionato la ricerca due anni fa, nel 2023. «Serviva una cornice quantitativa stabile per capire se e dove stiamo cambiando», afferma Fabrizio Serra, segretario generale della Fondazione, commentando la scelta di ripetere l’indagine dopo un biennio. Il quadro non migliora in modo significativo, segnalando criticità strutturali: difficoltà di accesso ai servizi, mancanza di continuità degli interventi, carico di cura e isolamento sociale. «Sul piano metodologico – continua Serra -, si è lavorato per rendere i due panel più omogenei, così da misurare con maggiore affidabilità le differenze attribuibili alla presenza di un figlio con disabilità».

Sebbene si registri una sensibilità crescente sul tema e nel nostro Paese sia in corso una riforma della disabilità, che punta a un sistema di riconoscimento e supporto più centrato sulla persona, i passi in avanti sembrano ancora lontani. La legge, infatti, al momento è in fase di sperimentazione e non entrerà pienamente in vigore prima del 2027.

L’universalismo “a prestazioni”

L’indagine fotografa un uso molto più intensivo dei servizi sanitari da parte delle famiglie con figli con disabilità (il 45% accede a quelli pubblici con frequenza quotidiana o settimanale, contro il 18% del campione senza disabilità). Nonostante ciò, oltre 6 su 10 acquistano anche prestazioni private; tra chi paga, il 16% spende più di 2.000 euro l’anno (contro l’1% delle altre famiglie). Le motivazioni principali sono ridurre i tempi d’attesa, integrare quanto erogato dal SSN e aumentare il numero o la frequenza degli interventi.

Il SSN è un sistema che eroga un certo numero di prestazioni, slegate dal raggiungimento degli obiettivi

Serra sottolinea i limiti di un modello centrato sulla prestazione: «Il Servizio Sanitario Nazionale, con il suo approccio universalistico, tende a funzionare secondo una logica prestazionale piuttosto che orientata agli obiettivi. Questo significa che l’assistenza viene erogata in termini di un numero predefinito di prestazioni (ad esempio dieci sedute di logopedia), indipendentemente dal fatto che tali prestazioni permettano o meno di raggiungere un risultato concreto. Questo porta a percorsi interrotti o dilatati nel tempo, con rischio di perdita dei risultati raggiunti. Inoltre, la logica prestazionale riduce l’appropriatezza e la personalizzazione delle cure, trascurando anche il vissuto delle famiglie».

I caregiver

Chi vive con una persona con disabilità non deve essere dimenticato. Parliamo dei genitori, su cui ricade – soprattutto sulle donne – il peso dell’accudimento e si ritrovano a prendere decisioni spesso limitanti per la carriera, come la richiesta di un lavoro part-time o addirittura la rinuncia all’occupazione.

Ma parliamo anche dei siblings, i fratelli o le sorelle di chi ha una disabilità, che spesso “spariscono”: il 67% delle famiglie non ha mai partecipato a percorsi a loro dedicati. Spesso per mancanza di informazione o di offerta territoriale. Eppure, tra chi partecipa, l’86% li giudica utili. È un ambito che Paideia considera prioritario perché il benessere dei siblings è parte del benessere dell’intera famiglia.

La disabililità riguarda anche le famiglie: genitori, ma anche fratelli e sorelle che spesso vengono “dimenticati”

Tornando ai genitori, il 28% di chi ha un figlio con disabilità ha dichiarato di essere stato molto condizionato nelle scelte di carriera, con una significativa differenza di genere: è stato penalizzato il 36% delle madri contro il 17% dei padri. Uno su due riferisce poi esperienze di discriminazione sul lavoro (che anche in questo caso hanno interessato in maniera maggiore le madri [22%] rispetto ai padri [15%]). Quasi la metà ha ridotto l’orario.

Infine, tra chi non ha un’occupazione, il carico familiare è il motivo principale (38% in media, 42% tra le madri). Tutto questo si traduce in un rischio di impoverimento che non discende automaticamente dalla disabilità, ma da barriere organizzative e carenze di sostegno. «Spesso parliamo di persone fragili, senza accorgersi che la fragilità riguarda il sistema», commenta Serra.

Autonomia scolastica e tempo libero

I genitori riconoscono alla scuola un ruolo importante, ma quasi un terzo delle famiglie con figli con disabilità ritiene che l’istituzione aiuti “poco” o “per nulla” a sviluppare autonomia; le valutazioni su socializzazione e autonomia restano sistematicamente inferiori al campione di controllo. Il 39% ha dovuto rinunciare ad almeno una gita scolastica negli ultimi due anni (tra i motivi principali la mancanza di personale dedicato e di assistenza notturna); al Sud e Isole la quota sale al 50%.

Nel tempo libero, il 24% dei bambini con disabilità non frequenta mai amici fuori da scuola (nel campione senza disabilità sono il 3%) e anche gli inviti alle feste sono molto meno frequenti, soprattutto con l’aumentare dell’età.

«C’è poi il rischio di “terapizzazione” del tempo libero – afferma Serra -: sport, musica o attività ricreative diventano prestazionali. Non si va a nuotare, si fa idroterapia, non si va a cavallo, ma si fa riabilitazione equestre e così via, perdendo in questo modo il valore inclusivo e relazionale e limitandosi a misurare i cambiamenti, i miglioramenti».

La paura del futuro

Più di un rispondente su due in famiglie con un minore con disabilità si è detto “molto preoccupato” per il futuro dei figli (contro il 35% del gruppo di controllo): «L’indagine ha riportato che la preoccupazione rispetto al futuro non riguarda soltanto il tema economico o lavorativo, come in qualunque famiglia, ma riguarda spesso anche temi collegati alla salute, al mantenimento delle relazioni affettive, amicali e sentimentali».

La legge 112/2016 sul “Dopo di noi” prevede, tra le altre cose, la scrittura, per le persone con disabilità, di un progetto di vita che non riguardi solamente i bisogni assistenziali e sanitari, ma coinvolga la sfera dei desideri e delle aspettative. «In questi ultimi anni c’è un’attenzione crescente a questi aspetti – riconosce Serra -. Tuttavia, il progetto di vita per esempio non è un qualcosa di statico, bensì qualcosa che cambia e si trasforma nel tempo. E occorre tenere conto di queste evoluzioni».

Gli scenari

«Ci sono molte famiglie che vorrebbero essere accolte all’interno di un percorso tra quelli che proponiamo e rispetto al quale non riusciamo a dare risposta. Avere la lista d’attesa non è un’evidenza di successo», afferma Serra.

La disabilità, come gli altri aspetti che si collocano al confine tra sanitario e sociale, spesso si basa su iniziative virtuose di singoli enti, senza che ci sia una rete di aiuto e supporto che vada al di là degli aspetti strettamente medici. 

Una collaborazione tra pubblico e privato sociale potrebbe generare cambiamento

«Sarebbe interessante provare a ragionare su processi di collaborazione pubblico-privato rispetto anche agli interventi trasversali tra il sanitario, l’educativo, il ricreativo e lo sportivo – riflette il segretario generale di Paideia – . Purtroppo è difficile pensare a una compartecipazione al costo, perché laddove vengono riconosciuti e prescritti dei LEA, questi devono essere riconosciuti a tutti».
Che cosa succede però se questo non accade? «Se non si riesce a dare a tutti, si potrebbe ragionare con logiche diverse da quelle del profitto, favorendo un percorso di collaborazione tra pubblico e privato sociale, coinvolgendo numeri più contenuti sui quali provare a generare cambiamento. Allora il mondo delle Fondazioni potrebbe giocare un ruolo».

Da un punto di vista operativo, un’attività che funziona molto bene in questi ambiti è il peer support, il supporto tra pari. Gruppi di madri, di padri o di fratelli e sorelle che si confrontano e si raccontano. «Ancora una volta la necessità è quella di considerare non soltanto la disabilità e quindi il deficit, ciò che è ritenuto non funzionante. Altrimenti la chiave di lettura resta di tipo riparativo. Occorre andare oltre questa visione e abbandonare i comportamenti compensatori». Sul come farlo, la discussione resta aperta.