Nel settembre del 1977 i Talking Heads pubblicavano “Talking Heads:77”, album di debutto che aggiunse la parola ‘art’ alle nevrosi punk di New York
Nel 1977 i Talking Heads debuttano con un album destinato a cambiare per sempre il volto del rock: “Talking Heads: 77”. Un lavoro nato nel cuore della scena punk newyorkese, ma che guardava già molto più in là.
Un disco intriso di ansia urbana, ironia disarmante e intelligenza musicale che definirà l’ala più ‘art’ del genere e dimostrerà che anche da un contesto sporco, veloce e fortemente edonista come quello della New York di fine anni ’70 poteva emergere qualcosa di assolutamente ‘alieno‘.
Ecco la storia di come quattro outsider dell’arte divennero protagonisti di una delle rivoluzioni sonore più importanti del XX secolo.
La nascita dei Talking Heads: arte, alienazione e CBGB
Siamo a metà degli anni ’70. Mentre la scena rock mainstream si avvita su sé stessa tra megalomania e prog barocco, a New York qualcosa sta ribollendo sotto la superficie. Il CBGB’s di Manhattan è il centro pulsante di una nuova ondata: cruda, essenziale, dissacrante, quella che si muoveva tra il caos dei Ramones, la carica provocante dei Blondie e le sgraziate architetture sonore dei Vodoids di Richard Hell.
È qui che nascono i Talking Heads, un gruppo di ex studenti della Rhode Island School of Design.
David Byrne (voce, chitarra), Chris Frantz (batteria) e Tina Weymouth (basso) si trasferiscono a New York nel 1974 e iniziano a esibirsi con il nome Talking Heads. Il nome deriva da un termine televisivo che indica le riprese statiche di chi parla in camera – impersonale, alienato, perfetto per la loro estetica.
Nel 1976 si unisce alla band anche Jerry Harrison (ex Modern Lovers), portando con sé tastiere e chitarra ritmica.
I Talking Heads si esibiscono regolarmente al CBGB’s, accanto a Ramones, Blondie, Television e Patti Smith. Ma il loro stile è diverso: meno garage, più controllato, intellettuale ma non pretenzioso. I testi sono stranianti, il sound nervoso.
L’energia punk si mescola a funk, art rock e minimalismo.
Non urlano contro il sistema: lo osservano con occhi spalancati e toni surreali.
La lunga gestazione di “Talking Heads: 77”
Il primo contratto discografico arriva nel 1977 con la Sire Records, dopo una serie di demo circolati nell’underground. Il debutto viene registrato ai Sundragon Studios di New York con la produzione condivisa tra la band e Tony Bongiovi (cugino del futuro Jon Bon Jovi), una figura più tecnica che creativa, scelta dalla label per bilanciare l’approccio sperimentale della band.
Le sessioni di registrazione si svolgono tra aprile e maggio del ’77. I brani sono già rodati dai live al CBGB, ma vengono cesellati in studio con cura maniacale.
La band lavora in modo meticoloso: riff spezzati, sezioni ritmiche ripetitive, cambi di tempo improvvisi.
Byrne scrive testi schizofrenici e taglienti, che riflettono le sue ossessioni per la comunicazione, la società e l’identità. Il risultato è un suono radicalmente nuovo, angolare ma accessibile.
Il concept di “Talking Heads: 77” non è dichiarato, ma emerge chiaramente: il disco è una dissezione della vita urbana moderna, vista attraverso l’occhio clinico e stranito di chi si sente alieno nel proprio tempo.
I testi sono pieni di contraddizioni, come la società che descrivono. L’umorismo è sottile, l’intelligenza tagliente, la musica coinvolgente ma mai compiacente.
Il sound di un’ansia lucida
“Talking Heads: 77” è un album figlio del suo tempo, ma proiettato nel futuro. Il sound è asciutto, spigoloso, basato su chitarre spigolose, linee di basso funky, ritmiche nervose e una voce – quella di Byrne – che alterna parlato, falsetto e grida isteriche.
Il brano di apertura, “Uh-Oh, Love Comes to Town”, è un manifesto: steel drum caraibici e groove danzante, ma il testo è una riflessione sulle insidie dell’amore e del conformismo.
Subito dopo, “New Feeling” esplora la dissonanza con riff ipnotici e pulsazioni tribali.
Ma è con “Psycho Killer” che i Talking Heads scolpiscono il loro primo classico: un funk paranoico costruito su tre accordi e una melodia ossessiva. Il testo – a metà tra confessione e delirio – è ispirato ai serial killer, ma anche alla condizione umana nell’era moderna. L’inserto in francese (“Qu’est-ce que c’est?”) è il tocco surreale che completa l’alienazione.
Altri brani degni di nota sono “Don’t Worry About the Government”, ironico elogio dell’urbanizzazione, e “No Compassion”, in cui Byrne critica la freddezza emotiva della società con una delle linee vocali più inquietanti dell’album.
Dal punto di vista commerciale, l’album ottiene un buon successo per un debutto così atipico. Non entra nelle top 10, ma raggiunge il pubblico giusto: quello curioso, attento, in cerca di qualcosa di nuovo.
“Psycho Killer” diventa un cult, aiutato anche da rotazioni radiofoniche nelle stazioni alternative e un manifesto sonoro dell’avanguardia di cui Byrne sarà capofila.