Asya e Manu sono una coppia di Millennial expat in una città che non viene mai nominata. Lei fa la documentarista, lui lavora per una ong. Trascorrono il proprio tempo lavorando (lei ha un ambizioso progetto legato a un parco cittadino) oppure con un ristretto gruppo di amici molto selezionati. Insieme bevono vino, parlano, fanno liste, fumano, girano per locali, partecipano a feste nelle case altrui o fanno picnic sull’erba. Finiscono anche per legare con l’anziana vicina un po’ svaporata che vorrebbero sottrarre alle attenzioni un po’ opprimenti della figlia e, a scadenze regolari, sentono in videochiamata i famigliari, che sono rimasti a vivere nei Paesi di origine. A un certo punto, decidono di comprare casa e inizia così infiniti tour immobiliari che li lasciano sempre un po’ tristi.
È questa, a grandi linee, la trama de Gli Antropologi (Gramma Feltrinelli, pagg. 176, € 18; traduzione di Gioia Guerzoni), il primo romanzo pubblicato in Italia (in realtà è il suo terzo) della scrittrice Ayşegül Savaş, nata in Turchia, ma cosmopolita: ha vissuto negli Stati Uniti, a Londra, in Danimarca, in Russia e, da dodici anni, abita a Parigi.
È, anche, la trama lineare, minimalista, del perfetto romanzo della Generazione Millennial. Gli elementi ci sono tutti: il multiculturalismo, le relazioni rarefatte, il rapporto complesso con la famiglia di origine, la difficoltà a prendere sul serio l’adultità e le responsabilità che comporta e sì, anche la brevità. Un critico inglese ha definito Gli Antropologi «uno still life in un mondo in continuo movimento» e leggendolo non si può che dargli ragione. Leggendolo, si pensa anche ai primi romanzi di Sally Rooney e, soprattutto, a Le perfezioni di Vincenzo Latronico, il romanzo prodige italiano uscito nel 2021 da noi e solo ora, dopo la traduzione in inglese con Fitzcarraldo (nemo profeta), candidato a due dei premi letterari più importanti del mondo (l’International Booker Prize e il National Book Award for Translated Literature).
Gli Antropologi, però, è anche di più. Con grazia, levità e precisione (una nota qui alla luminosa traduzione di Gioia Guerzoni), raccontando di case, spostamenti e rituali quotidiani, Savaş parla di come si fa a sentirsi a proprio agio in una città che non è la propria, e quindi, in generale, nel mondo e nella propria vita. Catturando le piccole azioni che solitamente restano sullo sfondo, Savas scrive un inno all’eccezionale che si trova nel normale, alla poesia del quotidiano, alla bellezza del tempo, una specie di Perfect Days di Wim Wenders in formato romanzo.