di
Gianni Santucci

Nel 1956 il maestro mise in discussione l’autenticità «Le fils d’Ebdomero», investimento pubblico da 800 mila lire, ultimo di una serie di ripudi seriali. «Se devo perseguire, perseguisco»

Lo scenario della Milano d’inverno lo affascinava, così il pittore chiese a un amico di andare a fare un giro in auto, dal finestrino osservava scorci della città innevata, era il pomeriggio di domenica 19 febbraio 1956 e quando si trovarono in via Palestro, vicino alla Galleria d’arte moderna, l’amico propose al maestro Giorgio de Chirico di parcheggiare l’auto ed entrare, per ammirare le nuove sale e alcuni dipinti acquisiti da poco dal Comune, alla qual proposta il pittore acconsentì dicendo: «Ma sì, saranno vent’anni che non faccio un giro». E questo fu il placido antefatto dello scandalo.
Quando de Chirico arriva davanti a una sua tela, sessanta centimetri per novanta, che mostra oggetti colorati in grembo a due manichini evanescenti, un quadro datato 1926, intitolato «Le fils d’Ebdomero» (come il titolo del meraviglioso ed enigmatico romanzo che de Chirico ha pubblicato a Parigi nel 1929, Hebdòmeros), ecco dopo aver a lungo esaminato la tela, il maestro alza lo sguardo e sentenzia: «È un falso».

Quel giorno stesso firma un esposto al questore e al Comune. Tre giorni e il quadro è sotto sequestro. Già così, la vicenda ha tutti gli elementi per scombussolare l’ambiente dell’arte. Ma in quell’anno 1956 la questione è molto, molto più complicata.



















































Da un po’ di tempo de Chirico scova falsi in giro per musei con una certa frequenza; è successo in Svizzera, negli Stati Uniti e pure alla Biennale di Venezia del 1948. Pettegolezzi malevoli come pipistrelli hanno iniziato a volteggiare sulla fama mondiale del maestro. Tanto che è lui stesso ad affrontarli con un articolo sul Corriere: «Devo innanzi tutto dichiarare che sono maligne voci quelle messe in giro, circa il ripudio dei miei Quadri metafisici, che mi porterebbe a dichiarare false tutte quelle opere da me dipinte fin dal 1912. Io sarei, quindi, quel padre snaturato che rinnega le sue creature. Non so davvero come si possa pensare a una simile assurdità».

Il Comune di Milano prova a contestare l’artista. Sia perché il quadro, comprato a Parigi due anni prima, è stato un investimento pubblico della ragguardevole somma di 800 mila lire. Sia perché l’autenticità sembra blindata: la tela era stata già esposta a Mosca, e per di più prima di deliberare la compravendita era stata esaminata da una commissione d’altissima fama e professionalità, composta dal direttore delle raccolte civiche d’arte del Comune, il professor Costantino Baroni, e da intellettuali del livello di Sergio Solmi, Carlo Carrà, Arrigo Minerbi e Gian Angelo Dell’Acqua. Il maestro però insiste: la firma è in un angolo dove mai l’avrebbe messa, non ha mai dipinto due manichini, non avrebbe mai dato un titolo a un quadro mezzo in italiano e mezzo in francese. Rivendica infine il sacrosanto diritto di avere l’ultima parola sull’autenticità o meno di una sua opera.

Che i falsari di de Chirico siano una schiera è fatto altrettanto noto, tanto che sul Corriere il pittore aggiunge: «Se dovessi correre dietro a tutte le segnalazioni di frode che mi pervengono da ogni parte, dovrei smettere di dipingere e segnare a deficit del mio bilancio mensile parecchie centinaia di migliaia di lire, per carte bollate, parcelle di avvocati, notai, detectives privati, viaggi all’estero».

Ma perché, si chiede qualcuno, all’improvviso, da un paio d’anni a questa parte, de Chirico scopre un falso dopo l’altro? Lui risponde: «Sono ormai una decina d’anni che si verificano queste truffe alla buona fede degli acquirenti. E soltanto da due anni ho appreso che del falso in pittura si può chiedere e si ottiene il sequestro del corpo di reato ovunque si trovi. Prima, dovevo contentarmi di smascherare pubblicamente questo traffico; ora, quando mi capita di poter perseguire, perseguisco».


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21 settembre 2025