Lo so, sto per dire qualcosa di sconveniente. Questo weekend parteciperò – su invito della Rettrice Donatella Sciuto – al Festival Internazionale dell’Ingegneria del Politecnico di Milano: una tre giorni vivace e intelligente, che da qualche anno riesce nell’impresa (tutt’altro che banale) di rendere l’ingegneria… sexy.
Nel programma, il mio intervento ha un titolo volutamente provocatorio: «Gli architetti sono i nuovi ingegneri». Una frase che capovolge il pensiero di Le Corbusier, che un secolo fa sosteneva che gli ingegneri fossero i nuovi architetti. Perché l’ho fatto? Provo a spiegarlo, partendo dalla mia esperienza accademica.
Innanzitutto, un piccolo «coming out»: sono ingegnere anch’io. Prima di virare verso l’architettura, ho studiato ingegneria strutturale, molta matematica e molta fisica all’École des Ponts di Parigi e al Politecnico di Torino. Ricordo ancora una scritta comparsa un quarto di secolo fa sui muri del Poli (meglio non rivelare quali…), vergata da mano ignota ma ispirata.
Recitava pressappoco così: «L’ingegnere è una persona che sa molte cose su pochi argomenti e, col passare del tempo, sa sempre di più su sempre meno, finché sa tutto di niente. L’architetto, al contrario, sa poche cose su molti argomenti e, col passare del tempo, sa sempre meno su sempre più, finché non sa più niente di tutto». Il nostro anonimo poeta chiudeva infine così: «Per fortuna c’è l’impresario, che sa tutto di tutto e risolve i problemi causati da architetti e ingegneri».
Al di là del folklore accademico, questo breve poema sintetizza una tensione reale nel sapere contemporaneo: tra specializzazione e visione d’insieme. Una tensione che oggi – anche grazie all’IA – sembra risolversi a vantaggio di quest’ultima. La quale è una dimensione in cui gli architetti eccellono.
Già negli anni ’90 Edward O. Wilson, grande biologo dell’Università di Harvard e vincitore del premio Pulitzer, in un libro dal titolo emblematico – Consilience – propugnava questa tesi: il mondo del futuro non sarà dei super-esperti verticali, ma dei «grandi sintetizzatori». Persone capaci di connettere saperi, costruire ponti tra discipline, unire metodo scientifico e intuizione creativa.
Negli anni successivi, molta letteratura scientifica confermò questa intuizione: le scoperte più importanti oggi nascono quasi sempre da gruppi eterogenei, composti da persone con competenze e percorsi diversi. E l’intelligenza artificiale – come vedremo tra poco – non fa che accelerare ulteriormente questa tendenza.
La nuova generazione di intelligenza artificiale, i cosiddetti LLM (Large Language Models), può esser considerata una rivoluzione in linea di continuità con l’invenzione della stampa nel Cinquecento e la costruzione di Internet nel Novecento. La prima ha iniziato a moltiplicare e diffondere il sapere su larga scala. Il secondo ci ha portato verso una sorta di cervello collettivo dove tutto si conserva e si rimescola – un po’ come nel libro La memoria del mondo di Italo Calvino.
Oggi, con gli LLM, possiamo interrogare questo grande cervello in tempo reale. Possiamo esplorarlo, sintetizzarlo, riscriverlo per ogni pubblico, in ogni linguaggio, con diversi livelli di profondità. Questa IA è, in pratica, una specie di idiot savant: un idiota sapiente, forse non geniale, ma onnisciente. Sa tutto di tutto. E ci permette di spaziare in campi anche molto lontani dai nostri.
Ed è proprio in questo contesto che la visione di Wilson torna alla ribalta. L’IA ci consente di attraversare i confini disciplinari con maggior facilità. E, si sa, i confini sono il luogo delle scoperte: lì nascono le invenzioni più brillanti, le soluzioni inattese, le visioni nuove. In questo contesto, la sintesi e la capacità di portare attorno a un tavolo competenze diverse diventano strategia. Potremmo dire: strategia architettonica. Il futuro sarà tutto degli architetti, quindi? Non proprio. Il titolo del mio intervento e di questo articolo è volutamente provocatorio. Gli architetti, se vogliono giocare questa partita, dovranno cambiare radicalmente.
Nel mondo che ci attende, il rigore sarà essenziale – una qualità che non sempre gli si addice. Bisognerà anche saper approfondire, testare, calcolare. In breve: ogni tanto anche l’architetto dovrà diventare un po’ ingegnere.
Tuttavia, è vero che la capacità di immaginare mondi nuovi, di cucire intelligenze diverse, di mettere insieme una molteplicità di stakeholder, di proporre alternative radicali… sono doti più naturali per chi ha una formazione di tipo architettonico, come dimostra quest’anno la Biennale Architettura di Venezia (Intelligens. Natural. Artificial. Collective. Fino al 23 novembre).
Ma forse è arrivato il momento di superare una volta per tutte la vecchia dicotomia. Serve una nuova figura: l’architetto-ingegnere (o l’ingegnere-architetto, se preferite). Una figura capace di immaginare e verificare, di sognare e calcolare. Di collegare il rigore della scienza con l’intuizione del progetto – nel solco della miglior cultura politecnica.
Per arrivare a questo obiettivo dovremo iniziare a ripensare i nostri percorsi universitari: più ibridi, più trasversali, più consilienti. Ne parleremo domani 21 settembre, al Festival Internazionale dell’Ingegneria
20 settembre 2025
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