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“Familiar Touch” era stato una delle sorprese della Mostra del cinema di Venezia nel 2024. Scritto, diretto e prodotto da Sarah Friedland, classe 1992 e al debutto di un’opera di finzione, fu presentato nella sezione Orizzonti e nella serata di premiazione si aggiudicò i riconoscimenti al miglior esordio, alla miglior regia e alla miglior attrice.

Un piccolo trionfo per un film intimista, riflessione gentile e accorta sulla maniera in cui possa scombinare l’esistenza l’arrivo di malattie degenerative come l’Alzheimer e la demenza senile. Al cinema dal 25 settembre al cinema con Fandango Distribuzione, Friedland traccia con cura, ma senza pietismo, il complesso di emozioni che circondano una persona affetta da una condizione simile, non dimenticando di discutere anche i dolori e le attenzioni delle persone che poi le stanno attorno.

Di cosa parla Familiar Touch

L’autrice ragiona sull’arrivo di questo smottamento a partire dalle immagini di una casa elegante. Con pochi scorci, quelli a inizio film, è capace di trasmettere l’idea che questo è stato davvero un luogo abitato. E il primo, brusco, stacco interiore di Familiar Touch è allora quello di ritrovarsi poco dopo con la protagonista Ruth (una grande Kathleen Chalfant) nel nuovo ambiente della struttura di cura. Qui la accompagna infatti un figlio addolorato, Steve (H. Jon Benjamin).

Ma ambienti tali, per quanto possano arredati e gestiti con calore, non possono mai nascondere la loro natura transitoria, sanitaria, intrinsecamente anaffettiva. E il punto chiave del film è farci scivolare dentro nei panni di Ruth. È dalla sua prospettiva che siamo introdotti nel cambiamento di routine e di volti, calati nell’oscurità – anche dolcemente ironica – di nuove percezioni forse inestricabili.

In chiave di drammaturgia sarebbe un classico tuffo nel vuoto, ma è qua che Familiar Touch si intreccia con le sensazioni note anche di chi sta dall’altro lato, degli altri personaggi che poi sarebbero anche gli spettatori della pellicola. Quella dell’invecchiamento è una dinamica chiara, universale, immediatamente riconducibile nel suo aver riguardato o riguardare quasi tutti i genitori, i figli, i nipoti.

La cura della gentilezza

Da questo “contatto familiare” Friedland annoda gli scampoli del racconto di un’esistenza passata, descrivendo Ruth attraverso pochi e semplici gesti. Come ad esempio la meticolosità culinaria che la donna pone nei confronti di chi le si para davanti. Una forma argomentativa scomposta e viziata dalla malattia, ma forse l’unica vera forma che si staglia in resistenza alla disgregazione delle capacità di dialogo sano e logico, quindi l’unica forma rimastale di reale prossimità con la propria identità e con chi le sta vicino.

Qui passa pure l’attenzione che Familiar Touch pone nel discutere sottovoce e con grazia questioni spesso scansate, come la dimensione del desiderio e della sessualità nell’anzianità. Perché al centro del discorso si tratta anche una tutt’altro che facile cura della gentilezza, come quella applicata da Vanessa (Carolyn Michelle Smith), una delle caregiver della struttura. Alla stessa maniera con cui Friedland accompagna con sguardo premuroso Ruth nel suo galleggiare in un quotidiano decostruito, azzardando in un paio di occasioni arpeggi quasi surreali in rima a un differente ritmo della vita e visione delle cose della protagonista.

Più sotterraneo al film sta invece un commento al sistema sanitario statunitense, posto nel paradosso di una struttura di assistenza chiaramente ad alta tariffa (e quindi preclusa a molti) dove però lavorano, per come ce la mostra Friedland, soprattutto persone nere, latinos o di chiare seconde e terze generazioni. Ponendo, insomma, un piccolo punto esclamativo a evidenziare quale sia l’ossatura di un Paese dove oggi è proprio questa ossatura a essere a rischio di erosione, minaccia e persecuzione.

Un buon esordio, dalla mano composta e dal sentimento calibrato, che inquadra senza retoriche uno spicchio dell’esistenza in cui riconoscere e riconoscersi.

VOTO: 7

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