di Matteo Persivale

Iggy Pop, l’iguana del rock e l’inventore del punk (quando i Sex Pistols portavano ancora i calzoni corti), si racconta: l’amico-rivale David Bowie, Jim Morrison, Houellebecq. E i genitori: «Vivevano in una roulotte, tolsero il loro letto per farci entrare la mia batteria. Hanno sempre protetto i miei sogni»

«Stella lucente, stella splendente, prima stella nel cielo stasera, vorrei tanto ma tanto davvero che tu esaudissi il mio desiderio». Iggy Pop sorride con dolcezza infinita ripetendo la filastrocca con la quale sua madre lo faceva addormentare, tanto tempo fa, prima che James Newell Osterberg, Jr. diventasse Iggy, l’iguana del rock, inventore del punk quando i Sex Pistols portavano ancora i pantaloni corti, amico e rivale di David Bowie, filosofo della vita da vivere a tutto volume. «Vivevamo in una roulotte, e quando cominciai a suonare la batteria al liceo i tamburi non entravano da nessuna parte. Così i miei genitori tolsero il loro letto per farci stare la batteria, e andarono a dormire nelle cuccette. Hanno sempre protetto i miei sogni, mamma e papà. Nella mia classe c’era il figlio del presidente della General Motors. Il più ricco ero io». Dom Pérignon ha chiesto a Iggy Pop — e altri sei creativi: Zoë Kravitz, attrice, scrittrice e regista; Clare Smyth, chef stellata Michelin; Tilda Swinton; Alexander Ekman, ballerino e coreografo; l’artista Takashi Murakami; Anderson Paak, produttore e regista — di raccontare cosa sia per loro la creatività, in una serie di fotografie scattate da Collier Schorr in luminoso bianco e nero e nei video girati da Camille Summers-Valli — e le risposte sono state diversissime e altrettanto affascinanti. Swinton, alla serata inaugurale della mostra dedicata dalla Tate Modern londinese a Dom Pérignon, ha letto una sua poesia mentre Iggy Pop da un divanetto la guardava affascinato, primo a applaudire e a sorprendersi per le parole di Murakami – l’artista nipponico non era a Londra, è apparso in video – che dai grandi schermi spiegava come la creatività giunge a lui soltanto in uno spazio vuoto, come una tela bianca.
«Per me, invece? La creatività è amore. Big Love. L’amore per quello che stai raccontando di te, l’amore che ricevi da chi ti ascolta. Proprio tanto amore».

Dalla natìa Muskegon, Michigan, 37mila abitanti, alla Tate Modern di Londra e alla campagna di uno champagne francese nato nel 1668 la strada è meno tortuosa di quanto sembra: l’affinità culturale tra Iggy e la Francia non è sorprendente per chi ha familiarità con il suo lavoro. Ha collaborato con artisti francesi, è commandeur de l’ordre des Arts et des Lettres e amico di Michel Houellebecq. E in realtà la figura di Iggy Pop smette di apparire atipica se invece di considerarlo semplicemente come un artista musicale — la pura aggressione che da un cinquantennio incarna sul palco portandone anche i segni nel corpo, l’autolesionismo, il senso sciamanico della performance che sono poi diventate la lingua corrente del punk — lo si considera come un pensatore di modi differenti di creare arte, come l’Artaud della nostra epoca. Alla menzione dell’autore de Il teatro e il suo doppio, Iggy s’illumina : «Antonin Artaud! Quando da ragazzo lo vidi in La leggenda di Liliom di Fritz Lang non capii più niente! Quella forza oscura che emanava con lo sguardo! Cominciai a leggerlo, a capire cosa intendesse per “teatro della crudeltà”, e sentivo la sua presenza spingermi oltre, lo sentivo che mi accompagnava verso performance più estreme… in quel periodo vivevo con Nico in Michigan. L’idea era cantare più forte, suonare più forte, lasciare tutto sulla scena e tornare a casa senza niente, svuotati. Per onorare la musica, la performance. Con gli Stooges sperimentavo, spaccavo bottiglie sul palco, mi tagliavo, sangue dappertutto… ai nostri concerti succedeva la qualunque, mi capitava non di rado di finire la serata in manette al commissariato. Cose da pazzi. Crazy times. Poi però con gli anni mi sono dato una calmata (ride) ».



















































All’università non ci sono andato»

Oltre a Artaud, suo nume tutelare, un’influenza forte è stata quella di Jim Morrison: « Lui aveva avuto il vantaggio di aver avuto un’istruzione regolare, studi artistici, la facoltà di cinema alla Ucla di Los Angeles. Jim era figlio di un ammiraglio, io ero uno che all’università non ci era neanche andato, avevo fatto il liceo e basta, leggevo per conto mio seguendo i miei interessi, andavo al cinema a vedere i film europei che da subito mi erano piaciuti tantissimo: la mia canzone The Passenger si chiama così per il film di Antonioni (è il titolo inglese di Professione Reporter, ndr)… nei film di Antonioni c’è tutto, c’è l’universo intero. Però facevo il batterista in una blues band, sulle cose culturali andavo necessariamente a orecchio, non come Jim: lui insegnava a aborrire tutto quello che aveva a che fare con la borghesia, a pensare solo all’arte, all’ispirazione… Jim scrisse un libretto di poesie, The Lords, and The New Creatures, che mi fece effetto, paragonava la vita a un viaggio in auto nel deserto. I suoi riferimenti erano i simbolisti francesi, li lessi e mi fecero tantissima impressione. Poi i filosofi francesi. Tutti lì ossessionati dall’idea della morte, la filosofia non come arte di vivere ma come arte di morire».

«Il mio corpo come una bomba a mano»
Lui ha rischiato più di una volta di morire, ma è ancora qui. Risponde serissimo: «È mia mamma. Mi protegge», e guarda in alto. «Però è vero, presi la decisione di usare il mio corpo come una bomba a mano, come una granata lanciata non verso il pubblico, ma contro me stesso. Ha presente quella frase di Thoreau, la maggior parte degli uomini conduce vite di silenziosa disperazione? Ecco, la musica, il rock, per me potevano essere una via d’uscita, perché Thoreau aveva ragione, è proprio così. Volevo dimostrare proprio fisicamente che una via d’uscita c’era. La musica. Lei l’ha visto quel film, Living, con Bill Nighy? Bellissimo vero? Tratto da La morte di Ivan Il’ic di Tolstoij, adattato per lo schermo da Kazuo Ishiguro: che bellezza. Mi ha commosso profondamente. Il tentativo di riscattare in extremis una vita… Guardi, io ho realizzato veramente tanto tempo fa che ero uno di quei ragazzini sfigati al ballo della scuola che non erano capaci di ballare, e allora mi ubriacavo. Prendevo coraggio, alla fine facevo un ballo con una ragazza e — un po’ l’alcol, un po’ l’incapacità — la facevo cadere per terra, lunga e distesa. Come se ne esce? Ho studiato le danze tradizionali di Bali dopo aver ascoltato musica balinese nel negozio di dischi nel quale lavoravo. Insomma, qualunque cosa pur di uscire dalla tristezza, dalla monotonia della vita. Dovevo trasformarmi in una bomba, per riuscirci? Bene così. L’ho fatto».

Jagger prima e dopo la morte di Jones

Ha cominciato come batterista, che non è il percorso tipico dei frontmen. Gli esempi sono pochi, Chris Cornell, Dave Grohl. «Vero ma non capisco come mai, fare il batterista ti insegna tantissimo su come si governa una band. Tu sei lì dietro, che vedi la schiena e il culo del cantante, e sulle ali hai gli altri, come cavalli e alfieri degli scacchi. Tu stai lì, li guardi. Se tieni gli occhi aperti, ti prepara a diventare il cantante. Anche le band hanno un governo. Il batterista sa tutto su come funzionano. Dopo tutti questi anni è diventato più facile? No, ma devi imparare in corsa o non sopravvivi proprio. Io al liceo vidi gli Stones quando ancora c’era Brian Jones, a parte che se ne stavano lì tutti in fila, impalati, ma guardi che Jagger non era mica quello che abbiamo imparato a conoscere. Finché c’era Jones lui stava schiscio, visto che parliamo di governo di una band. C’è un Jagger prima e dopo la morte di Jones, assolutamente sì. Le faccio un esempio: c’è uno nella band che sarà bravo fin che vuoi ma si dilegua, non si sa dove sia, e a vent’anni lo aspetti, a ventuno pure, ventidue, ventitrè… poi diciamo che verso i ventott’anni ti rompi le palle e gli dici guarda non possiamo aspettarti otto ore ogni volta, e passi oltre, trovi un altro meno sciamannato al suo posto. Lo sa chi altro ha cominciato suonando la batteria? Justin Bieber».
E qui l’uomo abituato da sessant’anni a stupire fa quello che Iggy Pop fa meglio di tutti. Serafico dice: «Mi piace Bieber. È bravo. Bel batterista, anche. L’ho visto su YouTube. Bieber è un caso classico: ragazzino di talento lampante, trova il manager, il mentore, e il successo. Ma devi imparare a dosarti, a muoverti nell’ambiente, perché arrivano i trenta e devi fare un passo in avanti, e così via. A cinquanta non puoi essere quello che eri a venti o a trenta, nella vita ma anche e soprattutto nella musica. Devi domandarti: quante cazzo di mattine posso alzarmi con la nausea e correre a vomitare? È proprio una questione di resistenza fisica, alla fine, prima ancora di ogni altra considerazione etica o caratteriale».

«Houellebecq, amico mio»

Fresco 78enne, abbronzato dal sole di Miami, Iggy ha un aspetto ottimo, pare in formissima. «Grazie, cerco di stare attento, di fare il bravo. Ogni tanto però scivolo, succede (ride). Nessuno è perfetto» (strizza l’occhio all’interlocutore, e ride ancora, di gusto).
È amico di Michel Houellebecq, le cui opere — che conosce benissimo, le cita con precisione impressionante — gli hanno ispirato un disco ma spiega che «quando l’ho conosciuto non mi è stato simpaticissimo. Ci siamo visti in un posto squallido perché la casa discografica sospettava che nessuno avrebbe comprato il disco così erano andati al risparmio, un albergo di terza categoria, e quando arriva il cameriere non mi fila proprio ma a lui fa un sacco di complimenti, monsieur Houellebecq di qua, monsieur Houllebecq di là… quello se ne va, Michel mi guarda e dice trionfante: lo vedi? Qui in Francia sono molto più famoso di te!».
E qui Iggy Pop parte con una citazione a memoria, precisissima confrontandola poi con il testo, di una scena di Estensione del dominio della lotta, romanzo d’esordio di Houellebecq, quella del sesso tra le dune: «Ecco, quella scena è greve, triste, imbarazzante, emozionante. Ti turba. Ti dice delle cose molto serie e molto importanti sulla vita. Così in tutti gli altri libri di Houellebecq». A questo punto, per lunghi minuti, Iggy cita passaggi di La possibilità di un’isola, di Annientare, dei saggi di Rester Vivant e del da lui molto amato Serotonina: una piccola e sorprendente lectio magistralis sui libri che ama. «Big Love», per l’appunto.

CHI E’ 

Pseudonimo di James Newell Osterberg Jr., Iggy Pop (a sinistra in una foto del 1966) è nato a Muskegon, nel Michigan, il 21 aprile 1947. Il soprannome Iggy, iguana, gli viene dall’aver fatto parte degli Iguanas come batterista dal 1963 al 1965, per poi passare ai The Prime Movers e in seguito ai The Stooges: dopo il loro scioglimento, nel 1974, ha intrapreso l’attività da solista. È considerato una figura chiave delle sviluppo di generi come l’hard rock, il noise, l’heavy metal, il punk rock.

Gli album
Con gli Stooges ha pubblicato tre album: The Stooges (1969), Fun House (1970), Raw Power (1973).
L’incontro con David Bowie avviene nel 1971: oltre a collaborare, i due diventeranno amici. La sua carriera restò bloccata alcuni anni a causa dell’abuso di droga. nel 2003 è tornato a cantare con una rinnovata formazione degli Stooges, con cui ha pubblicato nel 2007 l’album The Weirdness 

27 luglio 2025