Dopo più di due decenni di negoziati, il trattato delle Nazioni Unite per la tutela dell’alto mare entrerà ufficialmente in vigore il 17 gennaio 2026. Si tratta di un risultato considerato storico, raggiunto dopo che Marocco e Sierra Leone hanno depositato le loro ratifiche, portando il totale dei Paesi firmatari oltre la soglia minima di 60 necessaria per rendere l’accordo legalmente vincolante. Il testo del trattato era stato approvato già nel 2023, ma come accade per gli accordi multilaterali internazionali, la sua efficacia dipendeva dal numero di Stati disposti a ratificarlo. Ora, con l’avvio del conto alla rovescia di 120 giorni previsto dal regolamento, l’accordo è destinato a produrre effetti concreti nei Paesi aderenti.

Perché l’alto mare è così importante

L’alto mare copre oltre i due terzi degli oceani mondiali ed è costituito da aree al di fuori delle giurisdizioni nazionali. Proprio per questa condizione di “terra di nessuno”, è stato per lungo tempo esposto a sfruttamento incontrollato. Attività come la pesca intensiva, il traffico navale, l’inquinamento e l’impatto del cambiamento climatico hanno contribuito a deteriorare l’ecosistema marino. Secondo i dati dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), circa il 10% delle specie marine rischia l’estinzione. Eppure, ad oggi, solo l’1% delle acque internazionali gode di una protezione effettiva.

Gli obiettivi del trattato

Il nuovo accordo stabilisce l’impegno a proteggere almeno il 30% degli oceani entro il 2030, creando nuove Aree Marine Protette (AMP) anche in acque internazionali. Queste zone saranno sottratte alle attività più dannose, come l’estrazione mineraria in acque profonde o la pesca eccessiva.

Il trattato non si limita a fissare obiettivi: prevede anche che i Paesi firmatari propongano le aree da tutelare e decidano insieme le modalità di protezione. In questo modo si cerca di garantire un approccio condiviso e multilaterale, con regole trasparenti e votazioni collettive.

I Paesi che hanno aderito e quelli che mancano

Tra i firmatari figurano l’Unione europea e diversi Stati membri come Francia, Belgio e Grecia, oltre a Paesi extraeuropei come Norvegia, Corea del Sud e Cile. Allo stesso tempo, mancano economie di primo piano come Stati Uniti, Cina, Russia, Giappone e Italia, che per ora non hanno ratificato l’accordo. Questa assenza limita l’impatto globale del trattato, che resta vincolante solo per i Paesi che vi hanno aderito. Uno dei punti più delicati riguarda la governance delle nuove regole. Il trattato prevede che siano i singoli Stati a valutare l’impatto ambientale delle proprie attività in alto mare, con la possibilità per altri Paesi di sollevare obiezioni. Questo approccio richiede trasparenza, monitoraggio indipendente e un controllo internazionale capace di evitare scappatoie o interpretazioni troppo permissive. In assenza di un’autorità sovranazionale forte, il rischio è che alcune attività dannose possano continuare, se non saranno accompagnate da un serio impegno di collaborazione e da controlli effettivi.

Il valore simbolico e politico

Oltre agli aspetti tecnici, l’accordo ha un valore simbolico rilevante. Come sottolineato dal segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, il trattato dimostra che, nonostante le difficoltà di cooperazione a livello globale, è possibile raggiungere intese vincolanti quando si riconosce l’urgenza della sfida ambientale. Le organizzazioni ambientaliste hanno accolto la notizia con entusiasmo. Il WWF ha parlato di “catalizzatore positivo” per la cooperazione internazionale, mentre Greenpeace ha definito il trattato un “punto di svolta” che può segnare la fine dell’era dello sfruttamento incontrollato degli oceani. Il percorso verso il trattato non è stato semplice. Fino al 2024 le ratifiche erano poche e si temeva che non si sarebbe mai raggiunta la soglia minima. Ma con un’accelerazione improvvisa, il numero di adesioni è aumentato e ha reso possibile l’entrata in vigore.