Ultimamente, saranno i tempi particolarmente patriottici che corrono, si fa un gran parlare di “cose all’italiana”. La commedia, la pizza, i fascismi, ah da quando Baggio non gioca più e molto spesso pure di horror all’italiana. È diventata un’etichetta un po’ paracula che funziona tipo assicurazione sulla vita: se ti viene bene, hai creato la versione nostrana; se ti viene così così, pazienza, era “all’italiana”, cosa pretendevi? È un modo elegante per dire che stiamo facendo un genere che non ci appartiene ma ci proviamo lo stesso, declinandolo alla maniera locale: un po’ di serietà drammatica, un po’ di intensità autoriale, e qualche spruzzata di sangue per far sembrare che il cinema italiano non si pone limiti e che i Grandi Maestri dell’horror vivono ancora nei nostri cuori. La valle dei sorrisi, nuovo film di Paolo Strippoli, rientra in questa categoria: un lavoro ambizioso, con idee potenti e suggestioni interessanti, che però porta addosso anche i limiti del suo approccio. In due righe se avete fretta (ma chi arriva in fondo alla recensione vince un “bravo”): bello, ma ogni tanto inciampa e si sente che ancora non abbiamo del tutto fatto pace con l’idea che l’horror possa essere una cosa “nostra” senza bisogno di giustificazioni. SIGLA!
Siamo a Remis, cittadina alpina immaginaria che vive col fantasma di un disastro ferroviario. Lì tutti sorridono e sembrano felici ma proprio felici in modo assurdo, che ti chiedi proprio “Ma che cazzo c’hai da ridere che vivi a 4 ore dalla civiltà?”, ma solo perché un ragazzo, Matteo (Giulio Pranno), ha il potere di assorbire il dolore degli altri – senza che nessuno però legga la scritta in piccolo sul libretto di istruzioni soprannaturale del ragazzo. Qui arriva Sergio (Michele Riondino), insegnante di educazione fisica ed ex quasi campione di judo ma soprattutto uomo divorato dai sensi di colpa per un oscuro e bruttissimo passato familiare, che pensa di dover stare in paese solo per una supplenza di tre mesi e si ritrova invece dentro un rituale comunitario che dà un senso tutto nuovo all’idea di terapia di gruppo. Per farla breve, anche lui si ritrova ad abbracciare Matteo, il dolore sparisce ma nasce presto il dubbio che dietro quel paese di abbracciatori ci siano un po’ di questioni irrisolte e che sarebbe il caso che i servizi sociali venissero a fare un giro a casa dell’Angelo di Remis.
L’ambientazione fa o dovrebbe fare metà del lavoro: Remis non esiste, ma coi suoi paesaggi da cartolina frutto di un mix di varie località del Friuli-Venezia Giulia (Tarvisio, Sappada, Pontebba e Malborghetto, sembrano nomi tirati fuori da Nico il Sardo di Aldo, Giovanni e Giacomo e invece no, esistono proprio) è probabilmente la cosa più vicina che possiamo avere a Midsommar senza andare in Svezia. Montagne splendide, prati sconfinati, aria pura… ma vai a sapere se ti accolgono con una fetta di gubana o se ti appendono a testa in giù per offrirti agli dèi pagani. Insomma, il classico rischio di quando si va in Friuli, no? (E la gag regionale l’abbiamo fatta). Remis però non è solo il nostro Midsommar, perché il primo strato di metaforona steso da Strippoli è rendere la cittadina la caricatura di una società che preferisce sorridere a comando e scaricare il dolore su qualcun altro piuttosto che guardarselo in faccia. L’anestetizzazione come rituale collettivo: un dispositivo tanto rassicurante quanto mostruoso, che ovviamente non funziona mai davvero. E in più c’è pure il potere di Matteo, che ha dietro delle evidenti ispirazione Kinghiane e prende dritto dal John Coffey de Il miglio verde. C’è un po’ di tutto, insomma, un miscuglio di influenze che Strippoli prova a combinare in un folk horror che qua e là va a braccetto con una riflessione sul dolore grande come il campanile sommerso di Curon (che è in Trentino, lo so, Fabrizio non serve che ti agiti).
“Questo è il più strano cosplay free hug che abbia mai visto…”
Torna utile a questo punto guardare agli altri film di Strippoli, per capire a che punto della sua maturazione è arrivato. Con A Classic Horror Story (diretto con De Feo), aveva già mostrato una certa furbizia metatestuale: un horror elegante, ben confezionato, che però si fermava al gioco di rimandi senza davvero incidere sotto la pelle. Con Piove, ecco invece un dramma con buone idee visive, ma un ritmo opprimente che lasciava spesso la sensazione di fatica. La valle dei sorrisi sembra mettere insieme questi due percorsi: c’è la voglia di usare l’horror come allegoria sociale (il dolore che diventa rito collettivo), c’è la cura formale che ormai è marchio di fabbrica, ma non manca lo stesso rischio di perdersi fra le ambizioni e non affondare mai del tutto il colpo. È un film che prova a non disunirsi, per dirla alla Sorrentino, ma che a volte sembra più un collage di influenze che un’opera con una voce precisa.
Paolo Strippoli è uno di quegli autori italiani da preservare come i panda del WWF, su questo nessun dubbio. Non perché sia raro in sé o non si riproduca perché troppo impegnato a mangiare bambù (questo non lo sappiamo e comunque chi saremmo noi per giudicare?) ma perché di registi italiani che provano a sporcarsi le mani con l’horror senza vergognarsene non ce ne sono tanti. Ancora meno quello che provano a farlo rinunciando a qualsiasi pretesa commerciale o ingabbiamento drammatico – De Feudis? Zampaglione? Boh, pochissimi comunque. Forse il paragone più calzante per parlare del cinema di Strippoli in questo momento e con i dovuti distinguo è quello con Pietro Castellitto. Prima che mi venga a menare, spiego: sono entrambi della stessa generazione, cresciuti a pane, film e streaming; hanno entrambi un occhio allenatissimo, sanno come funziona la grammatica cinematografica; hanno a disposizione mezzi tecnici che vent’anni fa ti sognavi e che oggi compri su Amazon, tipo che con meno del costo di un monolocale a Lucca durante il Comics & Games ti fai su un service dignitoso. Però, un po’ come Castellitto, Strippoli sembra avere ancora poco di suo da dire: le influenze le riconosci tutte, il talento visivo c’è, ma la voce personale è ancora in incubazione. È normale: non ci si aspetta che a trent’anni si possa avere già la visione del mondo di un Paul Thomas Anderson, di un Martin Scorsese o di un Clint Eastwood. Serve tempo, servono esperienze e serve che queste stesse esperienze vengano messe alla prova per non restare solo intuizioni esistenziali sparse qua e là. Intanto, il suo spazio se l’è trovato ed è una buonissima cosa che ci sia qualcuno disposto a darglielo, dove può far convivere rituali pagani e “drammi da tinello” senza sentirsi limitato.
Il tipico ingresso di casa di una 80enne della Val Resia
Ci sono parecchi pregi, in questo La valle dei sorrisi. L’idea del dolore come “bene” trasferibile e condivisibile è forte, e rende bene l’immagine di una comunità che preferisce sgravarsi dei traumi piuttosto che affrontarli. L’ambientazione di Remis è suggestiva, la fotografia e il sonoro sanno costruire inquietudine, e certe sequenze hanno una potenza visiva che mette Strippoli un passo avanti rispetto a tanti suoi colleghi anche quando fa cose assolutamente classiche per un horror – come i jump scare: non ce ne sono molti qui ma uno è particolarmente girato bene e funziona anche alla seconda visione. Però, e qui arriva il rovescio della medaglia, si incarta spesso: il finale sembra non sapere dove andare, non perché si affolla di troppi sotto-finali o linee lasciate in sospeso, ma perché sembra semplicemente abbandonarsi a se stesso, preferendo un anti-climax ad un colpo ad effetto più risolutorio. Il personaggio di Romana Maggiora Vergano, la barista locale che introduce Sergio all’Angelo di Remis e diventa poi anche il suo interesse amoroso, è al massimo – per usare un termine bruttino – funzionale ma sprecato e senza un vero arco. Le suggestioni folk ci sono, ma restano accennate, senza il coraggio di scavare fino in fondo nella tradizione o nel perturbante. Se non fosse per una singola scena in cui dei piccoli ma carataristici (cit.) vecchietti di paese chiamano “foresto” il Riondino, potremmo essere tra le Alpi come in centro a Cremona o giù di lì.
Tirando le somme: A Classic Horror Story era furbo, Piove era cupo, La valle dei sorrisi è ambizioso. In tutti e tre i casi si riconosce il talento, ma manca ancora il film che spacchi davvero. L’horror “all’italiana” può essere la sua nicchia naturale, a metà tra drammoni esistenziali e inquietudini soprannaturali, una sorta di risposta tutta nostra alla china che globale che il genere sembra aver preso grazie al successo della A24, ma per diventare qualcosa di più serve un salto: smettere di giocare con i riferimenti e osare di più con l’identità. Questo film, per ora, è un sorriso a denti stretti (e sul gong abbiamo anche la gag odontoiatrica, fiuuu).
Poster quote:
“L’horror italiano consigliato da 9 dentisti su 10”
Lou Ferragni, i400Calci.com