Nelle sue opere combina liberamente media e metodi, perseguendo la sua esplorazione della natura, della storia, della mitologia e dell’umanità in rapporto al contemporaneo. Questo è Michele Ciacciofera (Nuoro, 1969), artista di origine sarda, cresciuto in Sicilia, trasferitosi nel 2011 a Parigi, dove attualmente vive e opera. Cittadino del mondo, come lui stesso si definisce, ha esposto in musei, gallerie e fondazioni in Europa, Cina e Africa. Oggi è l’unico italiano a partecipare alla 36° Biennale di San Paolo in Brasile, appena inaugurata. Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo e farci raccontare in modo più approfondito come nasce la sua ricerca artistica e come si sviluppa.
Intervista a Michele Ciaccioferra
Dove nasce la tua ricerca artistica?
La mia ricerca è nata mentre studiavo Scienze Politiche all’Università di Palermo e giocavo a pallacanestro. In quel periodo ripresi a frequentare Nuoro proprio per ragioni sportive, non avevo ancora vent’anni. Un giorno, quasi per caso, sono andato a far visita al pittore e designer Giovanni Antonio Sulas, amico di famiglia da sempre, con il quale, però, non avevo mai instaurato alcun tipo di rapporto. Sapeva che sin da piccolo avevo una propensione per il disegno, dettaglio sicuramente riportato dalle mie zie materne. Mi chiese di mostrargli i miei lavori offrendomi la possibilità di utilizzare un intero piano del suo studio.
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Hai condiviso lo studio con uno dei designer più attivi durante l’era del Principe l’Aga Khan in Costa Smeralda. Cosa ha significato rispetto alla tua formazione la presenza di Sulas?
Durante il giorno lavoravo da solo, ma il confronto con Sulas era costante, sia sul design che sui materiali, quando si trattava di questi argomenti era molto aperto e collaborativo, facevo ricerche sugli oggetti, le tecniche di realizzazione e sulle materie prime che utilizzava. Non parlavamo di pittura, su quell’argomento era, al contrario, assolutamente riservato e mi esortava sempre a guardare in modo temporalmente trasversale la storia dell’arte, osservando con la stessa attenzione l’arte pre-classica e classica in rapporto con quella moderna o contemporanea. Insisteva sul fatto che dovessi continuare con un percorso non ortodosso ma funzionale alla pratica artistica. D’altronde studiavo già la storia contemporanea e antropologia, oggi parte fondamentale del mio magma o bagaglio personale. La mia ricerca, quindi nasce in modo spontaneo e eterogeneo dall’incontro e dalla condivisione con Sulas a cui sono stato legato da grandissima amicizia.
E poI?
Dopo un paio d’anni decisi di tornare a Palermo dalla mia famiglia, iniziando quindi un percorso assolutamente indipendente. A seguito di una mia mostra (avevo 22 anni) in una galleria d’arte storica, incontrai Giuseppe Quatriglio e Matteo Collura e per quanto ci fosse molta differenza d’età, questi amici mi diedero l’opportunità di frequentare un mondo intellettuali con cui da ragazzo potevo parlare e confrontarmi di letteratura e antropologia culturale, così come di arte, riversando poi, tutto questo nella mia pratica artistica, arrivata sin qui.
La Sardegna nell’arte di Michele Ciaccioferra
Vivi a Parigi da diversi anni ormai, hai viaggiato molto, sei cresciuto a Palermo e sei nato a Nuoro. Quanto è presente la Sardegna nella tua ricerca artistica?
Dopo essere nato a Nuoro, dall’età di 3 anni ho vissuto a Palermo, dove i miei genitori si erano trasferiti per ragioni di lavoro. Con la famiglia continuavo, in vari periodi dell’anno a tornare in Sardegna, dove avevo profondi legami familiari e con coetanei con i quali ero cresciuto. Subito dopo i diciott’anni, quando mi si offrì la possibilità di tornarci a vivere, non ci pensai due volte. Ho esplorato la mia isola natale in lungo e in largo, mosso dalla curiosità, dalla sete di sapere e dall’amore profondo che ho sempre nutrito per questa terra, un’esigenza non solo psicologica ma quasi fisica.
Vivo da 15 anni a Parigi ma la Sardegna e la Sicilia restano per me fondamentali. Una delle cose a cui tengo di più è l’idea del confronto fra le due isole: entrambe nel Mediterraneo e vicine fra di loro; eppure, con due nature così diverse, bagnate dallo stesso mare ma così lontane. Quando creo, rifletto sul Mediterraneo con un approccio siciliano e un approccio sardo. Mi sento sardo quanto siciliano. Nella Sicilia riconosco casa mia, in Sardegna ho le radici più profonde, è presente in tutto.
Come si lega tutto questo alla tua poetica artistica e alla Biennale di San Paolo in Brasile?
Ho da sempre avuto una particolare attenzione per il “microcosmo culturale” e il multinaturalismo, credo che proteggere la diversità sia il modo per arricchire l’eterogeneità del mondo. Questo pensiero è in linea anche con il tema della Biennale: l’umanità come pratica e relazione e io credo che non possa esistere un altro approccio, soprattutto in un’epoca complessa come quella che stiamo vivendo. L’arte deve avere un ruolo nel mondo, positivo, per il mondo e l’artista non può far finta di nulla, anzi, avendo scelto un ruolo che è sociale, politico e poetico è vincolato a perseguire degli obbiettivi che seguano la logica di cui sopra.
La Biennale di San Paolo
Come sei stato selezionato per la Biennale di San Paolo?
Nel 2017 ho esposto al Museo MAN di Nuoro l’installazione sonora in terra cruda (sarda) e paglia intitolata The Density of Transparent Wind I, nella mostra Emisferi Sud, voluta dall’allora direttore, Lorenzo Giusti e curata da Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, l’attuale curatore della Biennale di San Paolo. Ho con lui un rapporto intellettuale profondissimo, oltre a quello professionale e umano. Oggi lui è un personaggio pubblico notissimo, nel 2017 non lavorava in Italia. È un pensatore straordinario, ci siamo conosciuti ad un convegno a Venezia sulla creazione artistica e le sue connessioni con le neuroscienze. Le relazioni tra la creazione e i temi del post colonialismo e alla decolonizzazione furono da quel momento sempre presenti nel nostro dialogo. Bonaventure Ndikung è stato anche il co-curatore della mia partecipazione a Documenta14 a Kassel e Atene e successivamente, insieme ad altri curatori ad una mostra straordinaria da Savvy Contemporary a Berlino. La mia partecipazione è stata quindi frutto di una sua scelta, operata congiuntamente agli altri curatori di questa Biennale, in funzione della ricerca e della mia visione che da sempre porto avanti, coerenti con i propositi di questa Biennale.
Come è nata l’opera con cui partecipi alla Biennale di San Paolo e come si inserisce nel tuo percorso artistico?
L’opera The Nest of the Eternal Present, è stata commissionata dalla Biennale e sostenuta dall’Istituto Italiano di Cultura a San Paolo e dal Programma IF dell’Institute Français.
Al centro dello spazio ho collocato un grande nido di terra e paglia, al cui interno sono posizionate tre uova e centinaia di piume di uccelli di questa regione del Brasile. Intorno ad esso, quattro grandi totem, realizzati con una tecnica impiegata tradizionalmente nell’edilizia locale chiamata pau a pique, impasto di fango, legno e paglia.
Il suo significato?
Per me è fondamentale stabilire un dialogo con il contesto locale anche attraverso la riconoscibilità di tecniche e materiali facenti parte del contesto sia sotto il profilo sociologico che quello antropologico. I totem sono sormontati da delle grandi teste degli uccelli colorati realizzati in carta pesta dipinta così come le tre grandi uova. Questo medium che uso frequentemente, si collega ad un discorso che mi è particolarmente caro sul riciclo e sul riuso dei materiali. L’opera è site-specific, assemblata in loco, realizzata con materiali locali, come ad esempio la terra del nido e dei totem, prelevata direttamente dall’immenso parco su cui sorge il Padiglione Ciccillo Matarazzo della Biennale.
Qual è la tua idea di Arte?
L’arte nasce da presupposti di dignità, coerenti certamente con la propria visione personale, ma rivolti alla creazione di un messaggio universale. Penso che l’Arte debba necessariamente offrire delle idee e dei valori positivi, anche per contrastare le derive che, come nel caso del mondo attuale, affliggono l’umanità.
È un’attività militante che non necessariamente deve essere compresa da tutti, anche se a tutti è rivolta.
Le mie scelte hanno al contempo un valore teorico ma un impegno pratico perché le urgenze del pianeta e della nostra vita attuale sono reali e mi obbligano in modo vincolante a non attendere o rinviare nulla. Ogni mia azione, anche piccola, va in questa direzione. È importante che l’arte costruisca una nuova proposta di umanità, che si rapporti intimamente ad essa con sensibilità e senso di responsabilità.
Nel 2017 eri fra gli artisti presenti alla Biennale di Venezia, oggi la Biennale di San Paolo, le gallerie che ti rappresentano, supportano il tuo lavoro durante eventi di questa rilevanza?
Premesso che la libertà creativa è una condizione essenziale per me, voglio essere autonomo anche nella produzione delle mie opere. Ho diverse gallerie nel mondo che rappresentano il mio lavoro e per me è fondamentale non richiedere al gallerista di produrlo; una situazione diversa è l’attività espositiva istituzionale, come nel caso della Biennale di San Paolo, dove la produzione rientra tra i compiti specifici dell’istituzione stessa.
Ho un rapporto forte e di fiducia con le gallerie con cui collaboro, esse mi supportano sempre moralmente in queste occasioni. Per me è la cosa più importante.
Michele Ciaccioferra, MAGA. Photo Stefano AnziniI nuovi progetti di Michele Ciaccioferra
Dopo la partecipazione ad un evento così importante, che progetti hai per i prossimi mesi?
Tornerò prestissimo a Fanano, dove ho realizzato qualche mese fa l’opera di land art permanente Altare del Tempo e dell’Acqua Feconda per degli incontri pubblici. È un’opera che ha spesso bisogno della mia presenza, anche fisica, trattandosi di un progetto attivo, permanente con un valore ecologico e sociale. A fine ottobre verrà presentata la mia prima personale da Building a Milano, è una sorta di retrospettiva, in cui esporrò alcune opere cruciali del mio percorso come quella dell’ultima Biennale di Mardin in Turchia, dal titolo TerraMadre o ancora l’opera con la quale ho partecipato alla Biennale di Venezia nel 2017 dal titolo Janas Code, che rimanda alle Domus de Janas sarde recentemente diventate Patrimonio dell’Unesco. Insieme a queste, altre opere, esposte fin qui solo in mostre estere in musei e gallerie in Cina, Francia, o altre parti del mondo, che con grande piacere voglio mostrare al pubblico italiano grazie a quest’occasione.
E poi?
Per il 2026 ho in programma una mostra a cui tengo molto, un progetto sull’attualizzazione della memoria, attraverso una rilettura di opere del Rinascimento prevalentemente italiano, ma non solo, che si terrà alla Biblioteca Nazionale Braidense presso il Museo della Grande Brera. Chiara Manca
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