Pubblichiamo il primo capitolo del nuovo romanzo di Viola Ardone “Tanta ancora Vita” (Einaudi), da martedì in libreria.
Io sono nato con la guerra e nessuno mi può fermare. Corro corro corro come questo treno facciatosta. C’è la polizia, ci sono i soldati, ci sono le sirene e poi le bombe. Sono solo un bambino, dico, e passo avanti e corro corro corro, e alla polizia e ai soldati e alle sirene e poi alle bombe faccio ciao ciao con la mano e li mando al didietro.
Come ti chiami? Mi chiamo Kostya. Quanti anni hai? Ho quasi dieci anni. Da dove vieni? Vengo da Mariupol’, sono nato con la guerra, i razzi spappolatrippe me li mangio a colazione e poi rutto a mitraglia.
Fisso il palmo della mia mano e avvio una diretta immaginaria con i follower che non esistono ancora, numero uno perché non ho un canale per lo streaming, e numero due perché il mio Tato puzzapiedi mi ha fatto promettere di non usare il cellulare, altrimenti si scarica subito. Mi esercito per quando un giorno sarò il re dei social e vivrò nella ricchezza, con belle donne e birra a fiumi, due motivi piú che sufficienti per stare a questo mondo, come dice sempre Danylo, l’amico di allegria del mio Tato.
Il treno mi porta in salvo, mi ci ha messo il mio Tato testadura. Il numero di telefono della Babusia è scritto a penna blu dietro la foto della Mate, tienila sempre con te mi raccomando. Sí, Tato. L’indirizzo della signora italiana dove lei ha la residenza è scritto con la penna rossa un po’ piú sotto, non lo stropicciare mi raccomando. Va bene, Tato. Il documento è nella tasca interna del giubbino con le piume di vera oca ucraina, non lo perdere mi raccomando. Sicuro, Tato. I soldi sono nascosti nei calzini, non li sprecare mi raccomando. Certamente, Tato. Ripeti di nuovo: raggiungere la frontiera, passare i controlli, incontrare il mio amico fidato Victor Kaminsky con la sua Dacia scassata, arrivare in Italia e poi sei salvo. Solo alla fine telefoni alla Babusia, non prima, altrimenti lei mi tritura i cosiddetti con le sue domande. E non ti perdere, capito? Ho fatto sí con la testa. Paura? Ho fatto no con la testa. Io sono come la guerra, gli ho detto, nessuno mi può fermare. Mi ha messo lo zaino sulle spalle, era leggero perché io sono forte. E tu, Tato, gli ho chiesto, paura? Non ho sentito la risposta, il treno ha fischiato e mi sono tremate le orecchie.
Salire salire salire, gridava un omone in divisa, mi ha preso un po’ di contropelo, ma a quel punto mi sono fiondato a bordo, che cosa potevo fare, il treno si è mosso, quando ho guardato fuori dal finestrino il mio Tato cuoredipecora era bello che sparito. Ha fatto bene, inutile restare a guardare qualcuno che scappa. Dentro allo zaino: čeburek, pane con cetrioli e pomodori, formaggio di pecora, bottiglia d’acqua del rubinetto al sapore di ferro. In fondo a tutto, sotto ai vestiti di ricambio, la foto della Mate, io e il mio Tato l’abbiamo sfilata dalla cornice sul mio comodino dov’è sempre stata da quando ero piccolo piccolo piccolo ma già orfano a metà.
Stendo e piego le gambe, non stanno mai ferme perché io corro corro corro anche di notte, scalcio come un cavallo testadura, il mio Tato ha dovuto mettere un cuscino al centro del letto per non svegliarsi con le gambe blu come un polpo gigante.
A chi dice che il mio Tato è il piú grande perdigiorno di tutta Kyiv rispondo di sciacquarsi la bocca con la vodka prima di parlare. È vero che se la spassa con la birra, con le ragazze di soldo, con le corse dei cani e la Play, ma il resto del denaro che ci manda la Baba dall’Italia lo conserva in una lattina vuota sulla mensola piú alta della cucina per comprare un giorno un’auto sportiva a soli due posti, uno per me e uno per lui, e allora insieme ce ne andremo in giro come attori famosi con gli occhiali da sole e la camicia bianca sbottonata sul petto.
Arriva il controllore occhidibue e gli piazzo il biglietto sotto al naso, lo gira e lo rigira tra le dita di würstel, dice che è valido solo fino alla prima fermata. Perché non sono sceso? Dove devo andare? Viaggio da solo? Sfodero il documento, gli mostro la data di nascita e il luogo, sono nato con la guerra a Mariupol’ e nessuno mi può fermare. La mia Mate è lassú in cielo a frenare le bombe nemiche, il mio Tato è partito volontario per la nostra amatissima patria, e io che faccio, secondo te, me ne resto solo solo ad aspettare che mi crolli la casa sulle orecchie o che mi rapiscano i crudeli facciadipeste per portarmi nei territori occupati?
Occhidibue si toglie il cappello e me lo poggia sulla testa. Si piega in un inchino che quasi gli si squarciano i pantaloni per la trippa, poi fa venire un altro in divisa come lui. Mi chiamano piccolo eroe che viaggia da solo e chiedono se ho bisogno di qualcosa, e io no grazie, non ho bisogno di niente, anche se una dozzina di biscotti al cioccolato e una Coca ghiacciata andrebbero benone, ma purtroppo dolci e bibite frizzanti non ne hanno, su questo treno. Allora occhidibue mi fa un nuovo biglietto che arriva fino a L’viv, dove quasi finisce l’Ucraina ma non il mio viaggio, che è lungo lungo lungo, mi ha avvertito il mio Tato due sere fa mentre guardavamo insieme il percorso sullo schermo del computer. Ce la fai? Ce la faccio. Sicuro? Ho fatto sí con la testa. E ci siamo rimessi a giocare alla Play.
Di questa Babusia da cui devo andare non so proprio niente, è venuta una volta soltanto a trovarci ma ero troppo piccolo per ricordare. Telefona spesso però, e manda soldi dall’Italia per renderci la vita piú comoda, come dicono gli amici del mio Tato ogni volta che stappano birre pagate con il sudore della sua fronte. Di lei ho visto una foto ma era da giovane, e le ragazze si somigliano tutte tra loro perché sono belle, col tempo gli viene la faccia da cocker scontento, gridano, fanno domande che triturano i cosiddetti e ti viene voglia di mandarle al didietro. La mia Mate invece sarà sempre giovane e non avrà mai altra faccia di quella che ho dentro allo zaino.