L’hanno ribattezzata la Coppa del mondo della diplomazia, non fosse che la diplomazia è diventata un campionato di serie B nell’era dei rapporti internazionali regolati dalla forza e dai conflitti. Stiamo parlando dell’Onu e della sua Assemblea generale, che per tutta la settimana vedrà riuniti a New York oltre 140 tra leader mondiali e alti funzionari, qualcuno da remoto perché gli Usa hanno negato il visto – l’ottantanovenne presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas -, altri all’opposto riabilitati dalla Casa Bianca e dunque redivivi – è il caso di Ahmed al-Sharaa, il primo presidente siriano a partecipare all’assise dal 1967. L’Onu compie ottant’anni e li festeggia nel peggiore dei modi, tra guerre di cui non si intravede una soluzione – Ucraina, Gaza e Sudan -, una crisi di credibilità che sembra inarrestabile e un serio problema finanziario che indurrà il Palazzo di Vetro a ridurre programmi e alleggerire organici. Per il 2026 si prevedono tagli al budget di circa il 15%, pari a 500 milioni di dollari, e al personale del 19%. Esiste anche un problema di cassa, perché gli Stati membri ritardano i versamenti dei contributi, quando addirittura non chiudono i rubinetti, e i grandi donatori – Cina, Giappone e Unione Europea – non hanno aumentato il loro supporto finanziario per compensare il disimpegno degli Stati Uniti. Washington, come noto, ha annunciato il ritiro dall’Unesco, accusando l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura di essere prevenuta contro Israele e di promuovere cause “divisive”, ed è uscita dall’accordo di Parigi sul clima, svuotando una delle missioni fondamentali dell’Onu.
A spiegare perché l’America ritenga il soft power una perdita di tempo e di risorse, e perché abbia deciso di mandare in soffitta il multilateralismo e l’ordine mondiale nato dalla Seconda guerra mondiale tocca a Donald Trump, nell’intervento di martedì, qualche ora dopo l’ondata di riconoscimenti dello Stato di Palestina da parte di Francia, Gran Bretagna, Australia, Canada, Portogallo e compagnia assortita, ma non Italia e Germania, che ritengono la mossa controproducente pur sostenendo in linea di principio lo schema dei due Stati, due popoli. La Casa Bianca ovviamente è contraria e non ha mancato di ribadirlo, ma non è una novità che nell’Assemblea dell’Onu sia spesso in minoranza, soprattutto sulle questioni che riguardano il Medio Oriente. E questo non sposta di un centimetro gli equilibri mondiali e in particolare le sorti del Medio Oriente. Lo iato tra il pragmatismo di Trump, che non intende ritirare la copertura a uno Stato che esiste, per quanto Israele sia votato all’isolamento, e l’idealismo del resto del mondo, a fianco di uno Stato che non esiste, spiega perché l’Onu e gli Usa siano ormai separati in casa, e qualche volta – come abbiamo visto – rinuncino persino ad avere un tetto comune. Ma se il Palazzo di Vetro è diventato un luogo ininfluente, non è solo colpa di Trump. La pantomima di un Consiglio di sicurezza che dovrebbe garantire il mantenimento della pace, e in cui hanno potere di veto gli stessi Stati che alimentano i conflitti (vedi la Russia in Ucraina, ma le tensioni tra Usa e Cina sono altrettanto paralizzanti), dimostra una sola cosa. L’Onu non può sopravvivere alla brutalità delle nazioni.
Eppure per una settimana democrazie e autocrazie, volenterosi e Stati canaglia si guarderanno in faccia e avranno diritto di tribuna, tutti indistintamente. Qualcuno si alzerà e uscirà dall’Assemblea, qualcun altro sosterrà tesi insostenibili, la maggior parte terminerà il proprio intervento con un alone di ipocrisia. Ma è già qualcosa, in un mondo dove trionfa il soliloquio e l’ascolto delle ragioni altrui viene sopraffatto dalle invettive e dalle minacce. Anche solo per questo, bisognerebbe augurare altri 80 anni di vita all’inutile Onu, perché le ricorrenze servono a ricordarci quello che eravamo, quello che abbiamo perso.
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